I VENTI DI GUERRA E LO «STUPORE TRIESTINO»

Per noi triestini che siamo stati “internazionali” sotto l’Impero Austro-ungarico per molto più tempo di quanto non siamo stati “nazionali” (e nazionalisti) sotto l’Italia, per chi ancora sente parlare nei racconti popolari di quando «l’Austria ghe ga intimà guera ala Serbia», la percezione del collasso di civiltà a cui si va incontro nei conflitti armati rimane molto forte. Nessun triestino dei primi del Novecento, potendo viaggiare liberamente su un territorio di quasi 700.000 km quadrati, in cui si parlavano una ventina di idiomi e con alle spalle 40 anni di (relativa) pace, avrebbe probabilmente creduto possibile che nell’arco di poco tempo quell’area sarebbe stata riframmentata tra otto Stati sovrani. La guerra sembra sempre a tutti la cosa più assurda, fino al giorno prima in cui scoppia. Poi, sui libri di storia, lo stupore generale sbiadisce, e tutti abbiamo imparato che l’assassinio dall’Arciduca Francesco Ferdinando fu in effetti un casus belli, il detonatore di una polveriera già insidiata da molti focolai. Focolai che però, almeno di questo dovremmo ricordarci, ciascuno dei diversi fuochisti o dei diversi pompieri pensava fossero in fondo controllabili e governabili con qualche locale trattativa o aggiustamento.

Se l’Inutile Strage – insisto nel ricordare così la Grande Guerra – ci insegna qualcosa di macroscopico (anche guardando agli scenari internazionali di queste ore europee), è proprio che il punto in cui tutto sfugge improvvisamente di mano e si scivola inghiottiti nel vortice della catastrofe non è così agevolmente determinabile a priori.

Non ci si può permettere di essere millimetrici, di pensare di andare spavaldi fino a un passo da- per vedere quel che succede se-, sicuri che tanto sarà impossibile il precipitare degli eventi, e che tutti avranno alla fine il buon senso di fermarsi e di sedersi a un tavolo. Perché quel passo potrebbe già essere oltre la linea di innesco di un irrecuperabile effetto domino.

Ancora oggi, anno 2014, nel parlare con i vecchi (e meno vecchi) della Dalmazia nel mio dialetto e nel sentire così amica la madrelingua – il Croato – di mio nonno, mi sento addosso lo stupore triestino per il collasso civile e la frammentazione da cui si ricominciò all’alba del 4 novembre 1918, quando il cacciatorpediniere Audace della Regia Marina approdò al molo San Carlo, cambiandone il nome mentre cambiava, per queste terre, la storia.

In questo stupore triestino c’è qualcosa del risveglio dall’incanto, qualcosa che somiglia ad un aprire gli occhi su aspetti di un contesto che non si potevano o forse troppo a lungo non si erano voluti vedere.

In questo stupore, che dopo un secolo prova a trasformarsi in lezione universale, c’è oggi una critica all’idea che la tranquillità socio-politica sia un dato acquisito, all’idea che lo star bene per i fatti propri sia una strategia di vita socialmente innocua, all’idea che le battaglie di civiltà prioritarie siano quelle per scavare spazi giuridici per il proprio desiderio di sperimentare e non piuttosto quelle per proteggere chi lotta con la povertà, con la solitudine, con l’esclusione alle possibilità umanizzanti (lo studio, la cultura, il lavoro non schiavizzante, le esperienze formative del carattere…).

Lo stupore triestino per il collasso apparentemente repentino di un mondo ordinato e protetto («perché l’Austria, savé – ripete come un ritornello il celebre personaggio di sìor Bortolo – ve iera un Paese ordinato!»), sta forse a dirci che la miglior salvaguardia del vivere pacifico tra persone e tra genti sta nella capacità di ingaggiare costantemente le battaglie sociali e culturali essenziali: per l’uscita dall’indigenza, per la crescita morale, per il radicamento del senso della solidarietà.

Dismettendo queste battaglie come ferri vecchi, lasciando prevalere quell’impulso a star bene ora e per i fatti propri che tutti ci portiamo dentro (che, in fondo, la battaglia delle battaglie è sempre interiore e spirituale), ci iscriviamo all’unica corsa social davvero nociva per la salute: quella spensierata che danza ebbra sulla linea a un passo da-, senza darsi pena delle reali distanze dal burrone. E chi corre sa che quando c’è di mezzo l’inerzia, rallentare qualche metro prima del ciglio ed evitare di sporgersi ancora in movimento non è mancanza di coraggio. È semplice, banale, disarmante eppure umana (e certo a tratti faticosa) saggezza. Quella saggezza che suggerisce di riaprire in tempo gli occhi sull’essenziale e di reindirizzare lì le risorse economiche, giuridiche e formative, perché il sempre possibile innesco di effetti-domino rimanga a reale distanza di sicurezza.