CON O SENZA FILTRO? A PROPOSITO DI PENSIERO, SCRITTURA E autenticità

Le questioni che sorgono a proposito dei modi di abitare le piazze digitali non sono diverse da quelle che tradizionalmente emergono nelle relazioni dal vivo, a riprova del fatto che la dimensione digitale non è affatto una dimensione alternativa. In un post recente Riccardo Scandellari (@Skande) ha proposto spunti utili a proposito della spontaneità, intercettando alcuni interrogativi piuttosto diffusi: è meglio esprimersi senza filtro oppure rileggere e censurare attentamente quel che uscirebbe di getto dalla nostra tastiera? Se però iniziamo a filtrare, a controllare, non è che perdiamo in autenticità? Non c’è il rischio che l’identità o il profilo che socializziamo comunicando siano in qualche modo artefatti? Provo a riprendere alcune chiavi di lettura che possono aiutare a uscire da questo – falso, lo anticipo subito – dilemma antropologico.    

Il nostro dilemma si regge implicitamente su un’equazione psicologicamente corretta: «spontaneità = dire/scrivere quello che si pensa». In ambito morale si direbbe: spontaneità = agire secondo quel che si è. È una dinamica nota e studiata fin dall’antichità: ne hanno parlato Platone e Aristotele ragionando delle virtù e i latini parlando degli habitus, cioè di quelle strutture di profondità della nostra personalità che sono il frutto della ripetizione – habitus, abitudine appunto – e che si attivano costantemente a sostegno della vita ordinaria.

L’abitudine è il frutto di un “allenamento” quotidiano e matura proprio nel ripetersi delle piccole manovre di ogni giorno: ci sono modi di dire, di pensare, di fare e anche di scrivere che pian piano acquistano stabilità nelle nostre vite. Sono, non a caso, tratti che ci caratterizzano e che rappresentano la nostra via migliore per affrontare certe situazioni: il come al solito è il modo più economico di affrontare le cose.

Quando ci affidiamo alle nostre abitudini è un po’ come se seguissimo dei “protocolli” personali collaudati, degli “schemi operativi” su cui inizialmente abbiamo riflettuto, che abbiamo applicato prima con attenzione e poi via via con sempre maggiore dimestichezza e minor riflessione. Una volta diventati abitudinari, questi “schemi” non hanno più bisogno di essere pensati nel momento in cui li attiviamo, a meno di non incontrare qualche ostacolo che spezza la routine e ci costringe nuovamente a riflettere, a considerare qualche alternativa. La spontaneità non è altro che questo: agire secondo questi “schemi”, che sono ormai poco dispendiosi e che non hanno bisogno di essere ripensati passo dopo passo nel mentre della loro esecuzione. Quindi – ma questo è solo un primo aspetto – la spontaneità è effettivamente il riflesso più affidabile della nostra personalità, di quello che realmente abbiamo fatto di noi stessi nel tempo.

Spontaneità, in questo senso, è sinonimo autenticità.

Detto questo occorre fare attenzione ad una seconda versione dell’equazione da cui siamo partiti, che è questa: «spontaneità = dire/scrivere quello che si pensa sul momento».

Questa seconda equazione associa alla spontaneità, cioè al riflesso autentico di quel che siamo, l’immediatezza ("sul momento"): questa associazione è corretta nel campo dell’azione, ma appunto solo lì dove non stiamo riflettendo su quel che facciamo, dove agiamo per routine. Non è invece corretta nel campo del pensiero e della parola che lo esprime. Non ogni cosa che ci passa per la testa sul momento è espressione autentica di noi stessi. Prova ne sia il fatto che spesso ci pentiamo delle parole che escono dalla nostra bocca in circostanze inusuali o di quelle che in preda all’ira o all’eccitazione digitiamo in un SMS o in una mail premendo immediatamente “invio”. Ci pentiamo di averle diffuse precisamente perché ci accorgiamo che sono sì espressione di quel preciso istante, ma in effetti non ci appartengono realmente, non sono un buon riflesso di quel che siamo abitualmente. Tant’è che usiamo talvolta un’espressione significativa, dicendo (a noi o agli altri): «Non so cosa mi ha preso». E il punto è proprio questo: quel che ci passa per la testa non è automaticamente un riflesso di quel che siamo. Può esserlo, ma può anche essere qualcosa di estraneo alla nostra identità più profonda.

Nel parlare e nello scrivere possiamo cioè essere immediati ma allo stesso tempo inautentici. A meno naturalmente di non concepire la nostra identità come la semplice collezione di tutti i pensieri che in qualsiasi momento ci passano per la testa.

Il pensiero espresso in parola, e a maggior ragione quello affidato alla scrittura, può allora essere di due tipi: filtrato o non filtrato. Il più autentico dei due – se riteniamo importante che la parola trasmetta qualcosa di noi in modo affidabile – è quello filtrato, quello cioè che rimane dopo aver setacciato con un minimo di cura le reazioni estemporanee, quello in grado di trasmettere all’interlocutore o al lettore un punto di vista che è effettivamente espressione di un’esperienza rimeditata, della nostra storia, della prospettiva globale da cui guardiamo e interpretiamo le cose.

@Skade osservava giustamente che «molti si barricano dietro la spontaneità per giustificare uscite poco felici o esternazioni scostanti e si discolpano dicendo “sono fatto così, dico quello che penso, sono spontaneo”». E ha ha perfettamente ragione nel proseguire dicendo che «se ‘spontaneità’ significa scollegare il cervello e lasciarsi andare, allora credo sia meglio controllarsi col rischio di apparire calcolati». Dal punto di vista che ho cercato di ricostruire, ha ragione e aggiungerei che questo “essere calcolati” non è affatto sinonimo di inautenticità: filtrare il proprio pensiero – che non significa falsificarlo o essere camaleontici (questa è tutt’altra cosa, è una inautenticità di tipo etico) – è invece un atto di rispetto per se stessi e insieme per gli altri, un segno di attenzione e di cura verso le relazioni, che di tutto hanno bisogno fuorché di parole gettate con superficialità fuori di sé, solo perché un pensiero qualunque è passato al momento per la testa.