INCROCIO DI SENTIERI, INCONTRO DI PERSONE

«La presenza di questo crocefisso presuppone l’incrocio di sentieri, ma anche l’incontro di persone». Scrive così la didascalia che racconta del Cristo di Falasòrno (Val Noana, Trentino), riparato da una edicola che dalla fine dell’Ottocento ha atteso i pastori e oggi vede passare gli escursionisti. È un pensiero semplice, che forse conduce al di là della spiegazione sull’origine votiva delle tante piccole opere d’arte disseminate sulle montagne.

Chi attraversa ancora oggi i prati di san Giovanni può letteralmente ascoltare la vita dei pascoli: è una sorta di concerto, un’armonia che sta agli antipodi del rumore urbano a cui per lo più siamo abituati. Non sbaglieremmo a chiamarlo “silenzio”. Questa atmosfera favorisce un ascolto più ordinato di sé: è come se i pensieri caotici o semplicemente vani venissero svelati nella loro piccolezza dall’essenzialità avvolgente del luogo.

Quel che rimane è la danza interiore dei pensieri più consistenti, che conducono rapidi ad interrogarsi sul senso delle proprie giornate, delle proprie scelte, del proprio affannarsi. Davanti agli occhi la raccolta del fieno; dentro, lo sguardo dell’anima catturato dalla bellezza semplice di un lavoro concreto ultimato, dai covoni che con la loro sola presenza spiegano dove sia approdata la fatica della giornata. Per cosa mi sto dando da fare? A cosa conduce quel correre e rincorrere frenetico della vita ordinaria? Tra i frutti del mio lavoro c’è una costruzione che possa sfidare la solare compostezza dei covoni? Potrebbero essere questi gli interrogativi che accompagnano chi si espone al silenzio dei prati di san Giovanni. Non c’è da stupirsi che nasca il desiderio di dar voce alla riflessione, di poter trovare qualcuno che la raccolga, che la prenda sul serio e la intrecci con la propria: nell’incrocio di sentieri ecco l’incontro di persone.

Al crocevia delle nostre domande più disarmanti e radicali, nelle intersezioni meditative delle nostre vite, al cospetto dei colloqui più coinvolgenti, lì dove la storia di ciascuno rallenta per farsi racconto, per riannodarsi, per ritrovarsi, proprio lì l’intuito delle generazioni passate ha immaginato dovesse esserci un crocefisso ad attenderci.

Ha immaginato che potesse esserci un Cristo ad ascoltarci.

Quanto è vero quel che recita la didascalia: la presenza di un crocefisso presuppone, e presuppone molto. Presuppone l’esporsi al silenzio, il coltivare qualche interrogativo, l’avvertire la dignità profonda del raccontarsi, il percepire che solo nel colloquio con l’altro qualcosa di nuovo può venire alla luce, strappandoci dall’isolamento in cui talvolta ci confinano i nostri dubbi, le nostre stesse domande.

Un crocefisso presuppone molto e poco ad un tempo: presuppone la nostra umanità. Ed è liberante pensare che la sapienza dei pastori di un tempo – forse dei pastori veri di ogni tempo – abbia saputo cogliere anche per noi moderni una delle verità più semplici e disarmanti della vita di fede: basta avere presso di sé la propria umanità e concedersi una sosta, per trovare Cristo accanto a noi, ad ascoltarci.