La Messa e il ricamo. a proposito DI "cose da donne" e di stereotipi...  

Alle porte di una chiesa un parroco aveva affisso un cartello bizzarro: «La Messa delle 10:00 inizia alle ore 10:00». Come se al cinema trovassimo il cartello con su scritto: «La proiezione delle 21:15 inizia alle 21:15». Che ovvietà. Però in effetti al cinema arriviamo di solito con un po’ di anticipo; a Messa, anche per chi ci va, la puntualità diventa un concetto elastico. Anzi, forse qualcuno se lo ricorderà, tempo addietro si discuteva di quale fosse il momento oltre il quale la Messa domenicale non si sarebbe più potuta considerare “valida”. Insomma: arrivando un minuto dopo si sarebbe sprecata la fatica, il “precetto” – come dicevano i nonni – non lo si poteva considerare assolto. Occorreva ritornare. Ci credereste che nelle pieghe di queste considerazioni si nasconde una interessante questione di genere? Con qualche concessione ad una scrittura un po’“estiva” propongo alcune annotazioni su maschile&femminile.

Vedo già svenire una cara amica esperta di liturgia cattolica: la Messa come un dazio da pagare, cercando di individuare il punto in cui si ottiene la massima resa con la minima spesa, insomma il famoso QB, quanto basta per avere le carte in regola con il Padreterno anche per questa settimana. Grazie al cielo questa mentalità è in via di esaurimento. Molti però ricorderanno – o potranno chiedere ai più anziani, specialmente nelle realtà di paese – che la Messa domenicale un tempo era anche un appuntamento sociale, con i suoi riti: il vestito bello, il solito banco, le monete dell’offerta… del rito sociale faceva parte anche il fatto che le donne entrassero in chiesa dall’inizio (ore 10:00 in punto…), mentre gli uomini rimanevano fuori fino all’offertorio. A quel punto entravano anche loro, giusto in tempo prima che scattassero i tornelli spirituali che invalidavano la partecipazione.

Perché mai agli uomini bastava mezza Messa e alle donne ce ne voleva una intera per considerare “soddisfatto” il medesimo precetto? Mistero. Certo è che la Messa, i sacramenti, la preghiera e tutto il contorno rimanevano occupazioni “femminili”, che ben sarebbero potute figurare in appendice all’enciclopedia degli omonimi “lavori”, religiosamente conservata dalla nonna. Cose da donne, dunque. E da preti, naturalmente.

Questo strampalato cliché continua a funzionare ancora oggi.

Recentemente L’Espresso ha pubblicato un’indagine sull’evoluzione della religiosità dei giovani, in cui si vede ancora – per quanto in forte diminuzione – un certo divario tra la “pratica” maschile e quella femminile. L’interpretazione di chiusura del dato è l’aspetto interessante: a cosa è dovuta questa maggiore ostinazione del femminile nel frequentare chiese e parrocchie? «Al retaggio della tradizione e all’influenza della famiglia» (cit.). È, insomma, l’onda lunga, ormai franta e rifranta, di quella mentalità per cui le donne hanno bisogno di più Messa degli uomini. Va da sé, si capisce dall’analisi dell’articolo, che non ne avrebbero bisogno né le une né gli altri, solo che gli uomini – evidentemente – sono più svegli nell’averlo capito e nell’aver destinato quel tempo ad altre occupazioni.

Insomma, da qualunque parte la si metta, il maschile ne sa sempre una di più o ci arriva prima. E il femminile lì, dietro, a rincorrere.

Se non siete soddisfatti di questa lapalissiana conclusione potete continuare a leggere quel che segue.

Proverei a mettere in campo un’ipotesi diversa, molto più antica degli stereotipi di genere di cui oggi si discute. La prendo da un racconto piuttosto noto, quello del cosiddetto “peccato originale” narrato nel capitolo terzo del Libro della Genesi.

Il brano non è la cronaca delle vicende domestiche di due antichi signori, ma la rappresentazione attuale di quel che va in scena ogni volta che il sospetto sulle intenzioni dell’altro si fa strada dentro di noi. Il colloquio di Eva con il serpente dà forma all’esperienza dell’attesa dell’altro e racconta di quel che accade nel tempo della sua assenza: quel serrato scambio di battute rappresenta plasticamente quel congetturare in noi stessi che si intensifica fino a produrre “ricami” non sempre benevoli. Ci facciamo i film, diremmo oggi. E – poi – agiamo senza più riuscire a distinguere il film della nostra immaginazione dalla trama della realtà. Le scelte contraddittorie, quelle che separano e feriscono, nascono così: prendono forma nelle più profonde stanze di noi stessi dove allestiamo e animiamo scenari in cui fatti reali e congetture gratuite si intrecciano e si annodano.

Il racconto parla (anche, non solo) di tutto questo. Tuttavia sembra non esserci dubbio: a leggere le cose con un certo occhio è ancora una volta la donna responsabile del disastro relazionale che viene rappresentato. «È stata lei!» protesta Adamo cadendo dalle nuvole e in fondo rimproverando il buon Dio di essere in parte implicato nella vicenda: è stata la donna che, peraltro, «tu mi hai messo accanto» (Gen 3,12).

Tutta colpa della donna? Il messaggio potrebbe non essere così banale.

Il racconto antico ha messo in evidenza opposte fragilità dello spirito umano: l’ipersensibilità a quel che ci passa “dentro” e il suo contraltare, l’ottusa sordità ai richiami interiori. Fragilità che sono il terreno di coltura dei fraintendimenti che corrodono dall’interno la fiducia reciproca. Tra l'umano e il divino così come in una coppia.

L’uomo, poi, a ben guardare, fa una pessima figura: lo si ricorda per la paura che lo prende e per lo scaricabarile con cui prova a declinare ogni responsabilità nel pasticcio a cui ha contribuito con disarmante superficialità. Adamo vive l’esperienza della relazione che sta collassando, ci mette del suo, ma non capisce perché tutto questo stia accadendo: è cieco sulla genesi di questo processo e bada solo a farla franca, mollando Eva.

Possiamo forse riconoscere che questo antico racconto, tra le altre cose, ha messo in evidenza la scarsa sensibilità rispetto alle dinamiche della dimensione interiore che caratterizza maggiormente il maschile. Il femminile viceversa avverte più sottilmente e con maggiore prontezza i movimenti nell’anima: è magari più vulnerabile rispetto alle turbolenze, ma è anche più di casa in una dimensione profonda della vita, rispetto a cui il maschile rimane talvolta terribilmente analfabeta. Se questo sia uno stereotipo o non piuttosto l’esperienza costante dell’umanità ciascuno potrà constatarlo guardandosi attorno e consultando se stesso e se stessa.

Ritorno così all’indagine de L’Espresso e all’interpretazione del dato: se il femminile rimane più legato alla dimensione del religioso potrebbe (anche) essere perché ha una sensibilità in più, non necessariamente perché ha una libertà in meno o una minore maturità umana.

Dare per scontato che l'attenzione al religioso sia semplicemente segno di arretratezza è, ancora una volta, un punto di vista in cui si esprime uno stereotipo culturale di genere: la via maschile è per default quella migliore, anche quando si esprime col tenere spenta la luce sul “dentro”, come sembra fare Adamo. Ergo il femminile, lì dove ancora si attarda con il religioso e lo spirituale, non può che essere prigioniero di obsoleti retaggi famigliari.

Che il femminile raggiunga il maschile nella sua più originaria sordità al richiamo interiore non è detto che sia poi una così grande conquista nella linea dell’emancipazione e della capacità di vivere più umanamente le differenze. Più interessante sarebbe innescare il movimento opposto: se il maschile si dedicasse con maggiore cura alla comprensione di dinamiche che in definitiva riguardano tutti, donne e uomini, forse cadrebbe meno dalle nuvole e – magari – riuscirebbe qualche volta in più a non cercare di risolvere i problemi relazionali con la clava.

Se accade che il femminile talvolta ecceda nel “farsi i film”, e che il maschile più spesso non si accorga nemmeno che la proiezione sia iniziata, probabilmente trovare la via per essere più attenti gli uni agli altri è qualcosa che chiede il concorso e la reciproca integrazione di entrambe le visuali. E, soprattutto, un po’ di cura spirituale in più di parte di tutti, senza dare per scontato che il legame con la dimensione “religiosa” sia sinonimo di arretratezza e segno di mancata emancipazione.

Ah, a proposito, quasi dimenticavo: da che momento non è più valida la Messa? Beh, fate voi. Io ai pranzi di festa preferisco arrivare in tempo già per gli antipasti, che il vero peccato è perdersi la compagnia e il buon cibo. E se qualcuno volesse informarsi sul menu, consiglio quest’ottima guida: Liturgy 2.0. Menù liturgico per diete spirituali, di Michela Brundu.