È finito il tempo dei blog personali?

È tempo di mandare in pensione i blog personali? Ha ancora senso utilizzare questo strumento che, a differenza di piattaforme come Twitter e Facebook non è (anche) un luogo sociale? Rudy Bandiera ha lanciato questo tema, chiedendo qualche spunto di riflessione. Perché in fondo è vero: il blog personale somiglia molto più al retrobottega a cui si accede da un vicolo secondario e nascosto, che non alla vetrina che espone la merce sulla piazza principale e trafficata. E allora, ha ancora senso starsene a riordinare prodotti lì nel retro, confidando che qualche passante si accorga di minime indicazioni segnaletiche, lasci la piazza e ci raggiunga in un luogo così fuori mano? Forse sì. Forse proprio il blog personale rappresenta un modo di qualità per abitare il virtuale.

Vi siete mai trovati a discutere su quanto siano “reali” le piazze social, o meglio, su quanto rappresentino davvero un luogo di incontro tra persone “reali” e non – in fondo – tra degli avatar? Vi siete mai chiesti se valga davvero umanamente il tempo che trascorriamo scorrendo le timeline di Twitter e soprattutto di Facebook? Non lo impiegheremmo più sensatamente prendendo un caffè live con un paio di amici? Se qualche volta vi siete fatti queste domande avete già una chiave per rispondere al tema che Rudy Bandiera ha lanciato. Perché dubbi di questo tipo molto difficilmente saranno sorti leggendo un post interessante sul blog personale di qualcuno. Quando trascorriamo del tempo in questo genere di consultazione online, non abbiamo la percezione di sprecarlo, di sottrarlo a cose che varrebbero di più. Intendiamoci: online perdiamo un sacco di tempo leggendo cose inutili e di scarso valore, ma non è questo il punto. Il punto è che un blog personale, per quanto possa ospitare la possibilità di inserire commenti, non ha per sua struttura la pretesa/promessa di essere un luogo social. Il tempo che quella lettura occuperà nella nostra giornata non appartiene al "pacchetto relazioni", per questo la consultazione di un blog personale non entra direttamente in competizione con la piazza reale, con il caffè con gli amici, con un incontro dal vivo. Si colloca in un'altra categoria di "oggetti" della rete, decisamente meno voraci rispetto a quello che tutti percepiamo essere il valore primario della vita: il tempo dedicato alle relazioni fatte di volti, di voci, di corpi.

Quindi direi che, anzitutto, proprio in virtù della sua non-promessa social, un blog personale continua ad avere uno spazio proprio, non sostituibile da un post su Facebook.

Il problema successivo è se l'investimento nell'allestire questo spazio – pur sempre un retrobottega – sia sensato, dato anche il numero mediamente basso di avventori e il gran lavoro che richiede la preparazione di una segnaletica sui social – la piazza super frequentata –.

Per proseguire la riflessione insisterei ancora sulla questione del tempo, questa volta pensando a quello dedicato alla preparazione di un post di 4/5000 battute.

Scrivere in modo non umorale richiede pazienza. Provare a scrivere in un italiano decente, non piatto, chiede una certa cura. Calibrare le parole che si usano, specie se si affrontano questioni delicate, chiede tantissima attenzione. Sono questi gli ingredienti che rendono certi testi – non tutti – un contenuto di valore, molto più che le "competenze" professionali che mettiamo in campo. Nel mio settore – antropologia e morale – scrivono centinaia di persone, trattando più o meno delle stesse cose, esplorando più o meno gli stessi dilemmi. Negli anni però ho constatato che solo pochissimi riescono ad imprimere alle parole quelle piccole e delicate curvature che rendono un certo ragionamento più interessante, più capace di raggiungermi portando una luce che prima non coglievo. Tutto questo è frutto di molto lavoro, spesso non colto da chi pensa che un post si metta su in un paio di minuti.

Con questo voglio dire che chi si intrufola nei vicoli secondari per raggiungere certi retrobottega sa che alla sua decisione per una visita risponderà la cura dell’artigiano delle parole che sta andando a trovare. Il patto è in fondo questo: qui, nel retro, non c’è chincaglieria turistica. Ci sono solo pezzi unici, fatti a mano. Riflessioni e considerazioni che, per disporsi in parola, hanno chiesto tempo e cura. Su Facebook non c’è posto per cose del genere. E se anche ce le mettessimo, sarebbe come proporre un pezzo unico di ceramica decorata sugli scaffali della grande distribuzione. Lì non se ne accorgerebbe nessuno, anche se ci passano davanti in tantissimi.

Quindi, dal mio punto di vista almeno, il blog personale rimane un ambiente che ha la sua forza proprio nel fatto di dover essere scovato, di non essere mai visitato per caso né frettolosamente e – per parte di chi lo cura – di dover essere il più possibile all'altezza di una parola meditata, non dozzinale, auspicabilmente luminosa (il che, va da se, non può accadere neppure sempre).

Certo, rimane ancora un aspetto sollevato da Rudy: a che serve tutto questo se pochissimi leggono? Un vecchio parroco alla fine di ogni incontro, per sapere com'era andata, chiedeva se ci fosse stata tanta gente, e spesso gli rispondevo: «Don, non è importante quanti ci fossero, ma che almeno qualcuno sia potuto rientrare a casa un po’ più ricco, più confortato o positivamente provocato». Ecco, forse la questione sta tutta qui: se penso che il blog personale debba servire anzitutto a me per auto-promuovermi, allora è meglio lasciar perdere, non è un investimento di energie sensato. Se penso invece che quel che ho scoperto o compreso possa fare bene a qualcun altro, così come ha fatto bene a me, allora basta un solo lettore attento per giustificare l'impresa.