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Opzione donna

Tra le novità in materia pensionistica varate dal Governo Meloni c’è la modifica al provvedimento “Opzione donna”, che consente di lasciare il lavoro a 58 anni alle donne con due figli o più, a 59 anni se con un figlio, a 60 anni senza figli. Alcuni/e hanno contestato che in questo modo si mortificano le persone che i figli li desideravano ma non hanno potuto averli, altre voci hanno obiettato che anche chi non ha figli ha faticato sul lavoro allo stesso modo. Qualcuno l’ha ribattezzata “opzione mamma”, denunciando una operazione ideologica, orientata a promuovere un ruolo preciso per le donne attraverso un “premio” a chi si è dedicata al focolare domestico.

Non so se dietro al provvedimento si celi una “contro-battaglia di genere”, ma mi incuriosisce il fatto che una questione di morale sociale (e non di morale famigliare) venga letta attraverso questi filtri, che mi sembrano accomunati dall’assenza di una prospettiva sulla giustizia distributiva. Il provvedimento in effetti non dovrebbe scandalizzarci affatto, se abbiamo a cuore valori come l’equità e la solidarietà, che diventano rilevanti anche in tema di maternità e paternità.

Provo a chiarirmi meglio.

I figli sono un dono preziosissimo. C’è chi li ha desiderati e sono arrivati, chi ha penato molto per averli, chi li ha accolti anche se ne avrebbe fatto volentieri a meno. C’è chi li ha messi al mondo e se ne è preso cura, chi li ha semplicemente tenuti sotto il proprio tetto, occupandosene alla meno peggio fino ai 18 anni. C’è chi li avrebbe voluti ma non sono mai arrivati, chi semplicemente non li ha avuti perché è andata così, chi non li ha voluti affatto, perché “con i marmocchi addio ai viaggi e al tempo libero” (che poi non è neppure vero…).

Dal punto di vista della giustizia sociale la varietà delle intenzioni non incide sulla differenza fondamentale: c’è chi ha avuto a lungo dei “minori a carico” (e magari, con gli anni di università, anche dei “maggiori”) e chi non li ha avuti. Che questo “a carico” meriti una attenzione collettiva già lo riconosciamo: ci sono le “detrazioni” collegate al numero dei figli, e ci sono gli assegni famigliari, provvedimenti che peraltro – come sanno tutte le famiglie – sono poco più che mance simboliche, che a settembre se ne vanno con l’acquisto dei libri scolastici.

Pur se in modo ancora inadeguato, riconosciamo già che sia giusto redistribuire un po’ di risorse a chi ha figli “a carico”. Riconosciamo cioè che avere dei figli non è (solo) un fatto privato. Il mondo è più ricco con più persone, ma anche a non voler concedere troppo alle idealità, ogni figlio è un futuro contribuente, che con il proprio lavoro sosterrà i servizi e le pensioni – povere o ricche che saranno – per tutti i concittadini. Non solo per i propri genitori. Da questo punto di vista, le famiglie (le madri, i padri), più sono state o sono numerose, più hanno contribuito all’economia del presente o contribuiranno a quella del futuro del Paese.

Oggi, con il mio lavoro e con le tasse che verso, contribuisco alla pensione dei miei genitori e anche a quella dei tanti anziani che non hanno avuto figli, che nei decenni della loro vita giovane non hanno speso un centesimo per sostenermi e per farmi studiare per tanti anni.

Chi ha avuto più figli, al netto di detrazioni o assegni, ha oggettivamente “investito” di più per il futuro di tutti rispetto a chi ne ha avuti meno o non ne ha avuti affatto. Non è una questione di morale privata ma di morale sociale, teniamolo bene a mente. Non è che chi non ha avuto figli è per questo più cattivo o egoista: in questa “assenza” c’è una varietà enorme di situazioni, come ho evidenziato all’inizio del ragionamento. In morale sociale non discutiamo però dei motivi privati delle scelte, fatte o subìte, ma di come stanno le cose dal punto di vista della giustizia distributiva (e contributiva), quali che siano le strade che hanno condotto gli uni e gli altri a trovarsi in determinate situazioni di rilevanza sociale.

In questo senso, il fatto in sé che ci sia la possibilità per le donne di uscire prima dalla vita lavorativa accedendo alla pensione (poi, è chiaro, deve essere un beneficio per la persona, non un modo truffaldino di trarne vantaggio per i conti dello Stato) e che questa sia connessa alla numerosità dei figli di cui ci si è fatti carico (e, sperabilmente, presi cura) è semplicemente riconoscere a chi ha faticato e sacrificato di più in passato un piccolo tempo di vita in più libero dal lavoro, “a carico” ora di quella stessa collettività a cui ha dato molto in passato, “facendosi carico” di futuri contribuenti. La possibilità del pensionamento anticipato non mi pare in sé legata a un’ideologia della mamma, ma a una sorta di “restituzione” di tempi di vita, in cui c’è il riconoscimento che i figli non sono solo una faccenda privata, ma un “patrimonio” per tutta la società.

Questo riconoscimento – al pari delle detrazioni e degli assegni – non significa affatto, in una società liberale, imporre di fare più figli o bloccare la donna in un unico ruolo. Significa più radicalmente ricordare che in un corpo politico tutti siamo legati, e che la generatività – pur rimanendo una questione insindacabile quanto alle scelte – ha un impatto pubblico, è un valore sociale. Tenerne conto nel redistribuire vantaggi e oneri è perciò una questione di giustizia.

Mi chiedo allora – e ritorno all’interrogativo iniziale – perché tutto questo sia scivolato in secondo piano nei diversi commenti che sono circolati sui social media a proposito di questa modifica al provvedimento “opzione donna”. Perché sono prevalsi un senso di disparità di trattamento tra donne o il sospetto di un arretramento sulla parità di genere?

Può darsi che la ragione sia semplicemente il pregiudizio politico su qualsiasi cosa proponga il governo Meloni, non va escluso.

Avanzo però un’ipotesi più radicale, e cioè che (in alcuni casi) persino le rivendicazioni di equità e di pari opportunità siano intrecciate con una cultura individualista, che tende ad affrontare ogni questione nella prospettiva dell’individuo separato e non della persona in relazione. Solo così può accadere che parlando di generatività e di figli si veda la donna ma non l’uomo, la madre ma non il padre, la coppia ma non la società, l’impiccio privato ma non il valore pubblico, la limitazione delle opportunità personali ma non l’ampiezza del dono esistenziale e relazionale, i diritti di libertà da rivendicare ma non i doveri di solidarietà da adempiere.

Questa prospettiva dell’unilateralità e della separatezza, che insidia tutti noi su diversi fronti (e che forse nelle questioni che riguardano la vita nascente emerge più che altrove), non credo sia buona alleata delle attese di una società diversa, meno verticale, più mobile, più solidale e improntata alla cura.

L’individualismo è una faglia culturale profonda, non sempre facile da diagnosticare.

Faccio le mie ipotesi e penso ancora una volta quanto possa essere utile ritornare a leggere Mounier e Maritain, che ne hanno svelato le trame meglio di chiunque altro.