Una società del dibattito o del dibattimento?

Agli inizi di aprile Luigi Alici ha invitato a ragionare sul controverso rapporto tra "Natura e Cultura" (su Dialogando), prendendo spunto - tra l’altro - dalla sentenza della Corte Costituzionale a proposito della legge 40 (che ha dichiarato illegittima la norma che vieta il ricorso a un donatore esterno di ovuli o spermatozoi nei casi di infertilità assoluta).
Alici osservava che «questi pronunciamenti hanno in comune il riconoscimento pubblico di diritti che diventano comprensibili - e compatibili - solo riscrivendo completamente uno scenario culturale condiviso» e si chiedeva alla fine: «È lecito far scrivere ai giudici il profilo culturale della società in cui abiteranno i nostri figli?».
Credo che il ragionamento di Alici non si possa iscrivere nel solito coro dei detrattori dei giudici, perché in effetti segnala un problema più radicale, che provo ad esplicitare ulteriormente.

È possibile che oggi i giudici si stiano arrogando qualche prerogativa di troppo, specialmente su questioni eticamente sensibili.  Si muovono però su uno scenario sociale e culturale che per lo più riconosce loro questo potere salomonico, ed è questo uno dei temi di fondo su cui meditare.

Sempre più, anche nella vita ordinaria, chiediamo alla legge di sciogliere una volta per tutte nodi che ci stancano troppo e che per essere affrontati seriamente richiederebbero percorsi lunghi e condivisi tra le parti. Accade sempre più frequentemente che lì dove non siamo d’accordo su qualcosa, i tentativi di reciproca comprensione si chiudano rapidamente, per lasciare il posto alle “vie legali”. Il dialogo orizzontale tra portatori di idee e prospettive diverse, a vari livelli, lo stiamo vivendo sempre più come tempo perso e inconcludente. Specularmente cresce la nostra preferenza per le triangolazioni, per il confronto per procura: ci preoccupiamo poco di misurarci con l’altro con cui siamo in disaccordo e piuttosto preferiamo interloquire (talvolta da subito) con un terzo a cui presentiamo unilateralmente le nostre ragioni. Il dibattito somiglia così sempre più ad un dibattimento processuale, in cui la ricerca dell’equilibrio e della soluzione è demandata ad una parte terza, mentre i contendenti si preoccupano soprattutto di elaborare argomentazioni o strategie per convogliare quanta più acqua possibile al proprio mulino. Accade così nelle liti famigliari per cui ci si ritrova rapidamente davanti a un giudice, accade nei talkshow, dove il “terzo” a cui ci si rivolge è il pubblico che assiste da casa, accade nei dibattiti civili su grandi questioni etiche, in cui il “terzo” a cui si espongono le ragioni sono i legislatori (dal livello politico a quello amministrativo).

All’interno di questo gioco di triangolazione quel che perde progressivamente forza è la nostra capacità di mediazione e di sintesi. Quando il compito della sintesi viene demandato sempre più sistematicaemnte al “terzo”, quel che rimane da fare ai contendenti è solo elaborare una arringa retoricamente efficace a sostegno della propria causa.

In questo quadro le parti perdono la sensibilità per il bene condiviso mentre si esalta l'interesse per il bene diviso, particolare, solo proprio. L'involuzione della riflessione segue a ruota: gli argomenti a cui ricorrere ed i punti di riferimento perdono coerenza. Se lo scopo residuo del dire è quello di concquistare il "terzo", quel che conta è trovare la mossa vincente, non la parola sensata e con-vincente, capace di far vincere insieme le parti verso una nuova sintesi.

È così che se oggi la mia battaglia è perché – come scrive Alici – «una coppia gay possa "adottare" un embrione, affittando un utero (magari assicurandosi che il corredo genetico sia ok e possibilmente ci sia una buona probabilità di avere occhi azzurri e qualche attitudine alla musica classica…)» spingerò al massimo sull’argomento del “tutto è cultura e il naturale non esiste”. Ma se domani la mia battaglia sarà contro gli OGM potrò cambiare agevolmente strategia retorica insistendo sull’argomento “occorre rispettare la natura e non alterarne artificialmente le caratteristiche”. Posso farlo perché tanto, nel gioco della triangolazione, la sintesi non è richiesta a me: l’unica cosa di cui devo preoccuparmi è di convincere il giudice, il pubblico o il legislatore. Spetterà a loro scovare le mie esagerazioni, le mie eccessive enfasi e bilanciarle con quelle del mio contendente.

Ho motivo di pensare che questo gioco sia non solo una pessima modalità di confronto, ma anche un grande azzardo, dagli esiti socialmente disgregativi. Accettando che il dibattito pubblico - ma anche interpersonale - sia di questo tipo, ci disimpegniamo proprio dalla buona e costruttiva fatica personale della mediazione e dell’incontro. Ci disabituiamo a prendere in considerazione le ragioni dell’altro per includerle noi per primi in una prospettiva di reciproca integrazione, mentre ci disponiamo sempre più ad ascoltarle solo per scoprirne i punti deboli e per confezionare controdeduzioni.

Uno dei problemi di fondo del nostro vivere sociale odierno credo risieda proprio nel fatto che tendiamo a demandare ad altri la fatica della mediazione nelle situazioni di conflitto, riservandoci per lo più il ruolo di “parte in causa”, principalmente dedita a farsi valere e a enfatizzare le proprie ragioni.

Una società in cui le diverse anime che si confrontano non si sottopongono alla fatica di essere loro stesse (insieme e nel dialogo culturale) giudici delle contese che le riguardano, finisce paradossalmente per diventare una società riscritta culturalmente da pochi giudici.

Ho l’impressione che la cultura della mediazione continui ad essere il più significativo antidoto rispetto all’estraneità reciproca che rischia di affermarsi lì dove le differenze diventano equivalenti e dove ciascuno lotta ormai solo per la propria causa.

Mi chiedo però cosa stiamo facendo e cosa potremmo fare con un supplemento di creatività per alimentare una cultura della mediazione.

To be continued…