Articoli e interventi da leggere con calma. Efficaci contro l’insonnia
Con un post del 14 agosto la Presidente della Camera, Laura Boldrini, ha socializzato la sua intenzione di ricorrere (se necessario) alle vie legali per tutelarsi dagli inqualificabili insulti di cui è fatta insistentemente bersaglio sui social media. «Ne ha il diritto e ne ha il dovere», ha commentato Beppe Severgnini sul Corriere della Sera del 16 agosto, mettendo a nudo l’inefficacia delle soluzioni finora tentate per evitare di avviarsi, anche sui social, lungo il binario “legge-sanzione”.
Il sogno di un ambiente online capace di forme di autogoverno si sta infrangendo sugli scogli della rivendicazione della libertà di espressione di persone indisponibili all’automoderazione. «Queste persone – ha scritto ancora Severgnini –, quasi certamente, non si rendono conto di ciò che fanno e dei rischi che corrono. Come possiamo convincerle? Ci abbiamo provato con il ragionamento, ci abbiamo provato con l’informazione, ci abbiamo provato con l’autoregolamentazione delle piattaforme: non è servito». Quel che rimane è la denuncia alle autorità competenti e – possiamo immaginare – a breve, il varo di nuove norme e relative sanzioni a cui la polizia postale possa fare riferimento.
Ho sostenuto convintamente fin dai suoi esordi il progetto Parole O_Stili, che proprio la Presidente Boldrini ha, per così dire, “tenuto a battesimo” a Trieste, in occasione della presentazione del Manifesto della comunicazione non ostile e posso dire che una delle preoccupazioni di fondo del Comitato Scientifico è stata proprio quella di non concedere spazio all’idea che il Manifesto, con i suoi “principi”, fosse una sorta di testo legislativo o di codice deontologico. Non volevamo dire “come ci si deve comportare” ma piuttosto “come sarebbe più bello un ambiente in cui imparassimo a muoverci con certi accorgimenti”. Implicitamente abbiamo seguito un’intuizione delle etiche medievali, per cui la via della bellezza e della persuasione intima del bene è umanamente più ricca della via del dovere e della costrizione.
Questo “sogno medievale” di Parole O_Stili – quando si dice l’oscuro Medioevo… –, il sogno di una capacità di cambiamento che nasca liberamente dalle persone, va archiviato definitivamente o esiste una via per alimentarlo e sostenerlo?
Credo che questa sia una questione molto importante, specialmente ora che il progetto sta scaldando i motori per essere d’aiuto anche nelle scuole e alle nuove generazioni.
Vorrei ripartire dalle annotazioni di Beppe Severgnini: ci abbiamo provato altrimenti che con la forza della legge e della sanzione, ma non è servito.
Forse non è consolante, ma non è un problema dei giorni nostri.
Nelle battute di chiusura di uno dei Classici della morale di ogni tempo, troviamo qualcosa di molto simile: «Avremo bisogno di leggi, in generale, per tutta la vita; infatti i più obbediscono più alla necessità che alla ragione e più per le punizioni che per il decoro» (EN X, 9, 1180a). Era Aristotele, ed era il IV Secolo a.C.; dopo aver speso pagine memorabili all’indirizzo di Nicomaco per parlare della ricerca della felicità, del valore delle virtù e di una attenta formazione, dopo aver ragionato, informato e tessuto l’elogio dell’autoregolazione, anche lui sembra essersi arreso all’evidenza: tutto questo funzionerà con pochi, per la maggioranza ci vuole la mano pesante.
Aristotele era indubbiamente un aristocratico, forse anche per questo non nutriva gran fiducia nelle possibilità di cambiamento delle “masse”. Fosse vissuto all’epoca della banda larga, probabilmente avrebbe auspicato da subito leggi ad hoc e l’intervento delle forze dell’ordine (e non come extrema ratio).
Poi il tempo è passato e sono arrivati gli oscuri medievali. Neppure il panorama sociale del XIII Secolo doveva essere uno splendore di virtù civiche, ma almeno – avendo più di un millennio e mezzo di osservazione filosofica alle spalle – a loro modo sapevano che questa “bassezza d’animo” era semplicemente un aspetto della condizione umana e non una recrudescenza di barbarie o il problema di una certa classe sociale o di un gruppetto di individui molesti. Avendo letto molto altro oltre ad Aristotele, erano a conoscenza anche di qualcosa a cui il filosofo greco non aveva riservato particolare attenzione: sapevano che il cambiamento o nasce da dentro l’uomo, lungo la via della bellezza e attraverso una appassionante lotta interiore, o non nasce affatto. Sapevano cioè che puntare sul binomio legge-sanzione è efficace nell’immediato per disciplinare i comportamenti e riordinare per un po’ il decoro di un ambiente sociale, ma alla lunga è fallimentare, perché non solo non favorisce il cambiamento individuale – nessuno muta d’animo per via di costrizione – ma peggiora la vita di tutti, con un proliferare esponenziale di adempimenti preventivi, gabelle, controlli e multe al dettaglio.
Se vogliamo, la grande domanda delle etiche medievali non era allora “come disciplinare i riottosi?” ma avrebbe potuto suonare più o meno così: “Come si diventa artefici del proprio cambiamento in meglio?”. Il bene e il male non sono equivalenti, ma neppure statici: o si procede verso l’uno o verso l’altro, nella vita si migliora o si peggiora. In entrambi i casi si tratta di cambiamenti frutto di decisioni – più spesso piccole e ordinarie – che dirottano da un modo di fare ad un altro. Per questo riflettere sul bene e sul male è importante per individuare il meglio e il peggio, ma altrettanto importante è imparare a vedere in se stessi la dinamica del dirottamento: cambiare binario è riconoscere la tensione che precede ogni decisione, è distinguere verso cosa ci spinge quel po’ di personalissima “bassezza d’animo” che ciascuno porta in dote e quali siano le alternative che si fanno avanti, è riappropriarsi dei propri margini di manovra per indirizzarsi al meglio, scoprendo che cosa sia di aiuto nel vincere le proprie resistenze. A tutto questo la morale medievale ha dedicato grande attenzione, preoccupandosi in fondo di restituire alle persone il potere di cambiare le cose migliorando anzitutto se stesse, come risposta al richiamo di una maggiore bellezza umana più che come sottomissione ad un dettato legislativo (pur senza disconoscerne l’utilità e talvolta la necessità).
A mio modo di vedere, qualcosa di tutto questo – un sogno appunto di sapore medievale – è filtrato nel progetto di Parole O_stili e nel tentativo di promuovere un’etica della prima persona (“io potrei…”), stimolando ad espandere il tempo della riflessione prima di decidersi per un “pubblica”, incoraggiando a valutare le alternative migliori, invitando a considerare il proprio potere di rendere più umano l’ambiente relazionale, che sia online o offline.
Rimane vero quel che ha scritto aristotelicamente Severgnini: ragionare, informare, promuovere l’autoregolamentazione in prima persona non è servito.
Come segnalavo sopra però, il sogno medievale si regge su due cardini: una discussione su quel che fa bene e su quel che fa male (e su quel che di conseguenza ciascuno potrebbe fare), e una forte propensione all’attenzione interiore, all’esame di sé e all’esercizio spirituale, inteso come “ginnastica” per affrontare il silenzio e le tensioni tra i diversi propositi che ci animano. Perché sono queste le manovre che concretamente consentono di espandere la propria libera capacità di cambiamento.
Se allora informare e riflettere non è servito, non è perché sia inutile, ma perché non basta. Perché è uno sforzo fatto a metà se non si apre uno spazio per capire e sperimentare come il “fare altrimenti” possa entrare liberamente ed efficacemente nella propria vita.
È vero che siamo in un tempo di spending review, ma perché accontentarci di metà del sogno medievale, avendo intuito che si tratta dell’alternativa possibile alle misure repressive?
Non contesto la decisione della presidente Boldrini, né mi straccerò le vesti se arriverà anche online la mano pesante per coloro che hanno perso in se stessi quel senso del decoro che tratterrebbe da certo modo di esprimersi. Quando i proverbiali buoi sono scappati dalle stalle si è spesso nel vicolo cieco degli estremi rimedi. Dico però che se non vogliamo chiuderci ancora una volta nell’etica della terza persona (“si deve”) e, vedendola disattesa, arrenderci alla dinamica legge-sanzione, quel che potremmo fare è dare più spazio al secondo cardine del sogno medievale, e investire (anche in senso formativo) sulla capacità umana di sostenere il conflitto interiore volgendolo al meglio. Per riprendere a lavorare in questa direzione non è mai troppo tardi.
Regalare un po’ di Medioevo alle future generazioni potrebbe significare regalare un po’ di luce in quell’oscurità dei nostri modi violenti che, giustamente, continua a preoccuparci.
Post pubblicato sul blog di Parole O_Stili
Nei sondaggi che mi capita di fare in occasione di qualche corso o conferenza accade quasi sistematicamente che la parola “autorità” sia associata ad una famiglia di riferimenti generalmente connotati negativamente: obbligo, costrizione, violenza, prevaricazione. Questo modo di percepire l’autorità è molto in linea con quella che Charles Taylor ha definito “cultura dell’autenticità”, un modo di pensare e di essere che attribuisce positività alla possibilità esprimersi secondo se stessi e, viceversa, negatività al fatto di conformarsi a indicazioni stringenti e/o costringenti provenienti dall’esterno. Scrive così, per precisione, Taylor: «Con “cultura dell’autenticità” intendo quella concezione della vita secondo cui ciascuno ha un modo specifico di realizzare la propria umanità e che è importante scoprire e vivere tale originalità, anziché conformarsi individualmente a un modello imposto dall’esterno, dalla società, dalle generazioni precedenti o dall’autorità religiosa o politica». (C. Taylor, A secular age; tr. it.: L’età secolare, Feltrinelli, Milano 2009, p. 598).
In un certo senso, l’idea che sembra essersi affermata nella società postmoderna è che le soluzioni di vita provenienti da dentro, dalla propria ispirazione, siano quelle umanamente buone e quindi da seguire, mentre quelle che vengono da fuori, in special modo dalle autorità (familiari, sociali, religiose…) siano per lo più tentativi di renderci disciplinati, funzionali al sistema e, alla fine dei conti, infelici; soluzioni quindi di cui diffidare e preferibilmente da non fare proprie, pena l’inautenticità.
L’autorità, insomma, se la passa male nella cultura contemporanea e l’ultima cosa che ci viene in mente è che possa essere una forza alleata del progresso (personale e sociale): piuttosto la percepiamo come una risorsa di ottusa conservazione, un ostacolo sulla strada della fioritura della nostra irripetibile umanità.
Andrea Grillo ha proposto recentemente di discutere sulla figura dell’autorità, sulle possibilità di un suo recupero e anche sul modo di intenderla e di esercitarla, specialmente poi nella Chiesa cattolica (qui il post di avvio del dibattito su "Cultura civile e teologia"). La trovo una proposta interessante, proprio a partire dal quadro che ho sbozzato sopra, con l’aiuto di Taylor. Vorrei allora contribuire alla raccolta delle idee provando ad avanzare alcune semplici osservazioni – in un post questo riesco a fare – per mettere in questione il modo di percepire l’autorità che ho richiamato sopra. La tesi è semplice ed è questa: la “cultura dell’autenticità”, intesa come enfasi dell’ascolto di sé e sospetto verso l’autorità esteriore, è una cultura massimamente conservatrice e di fatto nemica della maturazione della persona e del cambiamento. Per ridare slancio al dinamismo personale e sociale quel che occorre è invece proprio ritrovare il senso e il ruolo dell’autorità.
Provo a offrire qualche ragione a sostegno di questa tesi.
La prima osservazione che vorrei fare è che di per sé l’autorità, specialmente quella delle Istituzioni politiche e religiose, viene percepita negativamente – come accade nei sondaggi al volo – perché di primo acchito immaginiamo che coincida in tutto per tutto con una voce che ci obbliga (o prova a obbligarci) a fare quello che non vorremmo. Dobbiamo però riconoscere che ci sono circostanze in cui invece l’autorità ci piace molto, e la accogliamo come una fonte positiva: va così, ad esempio, quando impone ad altri quello che noi già facciamo o quando consente dopo un tempo di proibizione quel che noi vorremmo poter fare. Talvolta l’autorità ci indica anche il modo migliore e più economico di fare nelle situazioni in cui siamo senza idee: in molti casi ci affidiamo all’autorità degli esperti, e anche in questi casi ci sentiamo più risollevati che non oppressi. Esistono cioè diversi frangenti in cui volentieri facciamo quel che altri ci dicono o persino prescrivono, senza con questo sentirci mortificati, privati di libertà o inautentici.
In breve: l’autorità ci piace quando già aderiamo a quel che propone o quando quest’adesione è per noi chiaramente vantaggiosa. Non ci piace quando ci chiede un cambiamento che implica qualche fatica, scomodità o passo indietro rispetto alla possibilità di soddisfare un nostro desiderio. Se l’autorità (famigliare, politica, religiosa…) si è spesso dotata di un potere coercitivo è proprio perché da sempre si è misurata con la resistenza individuale a fare proprie delle indicazioni per la vita contrastanti con alcune delle ispirazioni che ciascuno scopre o ritrova dentro di sé.
La coercizione tuttavia, se sortisce qualche effetto a livello di disciplina dei comportamenti individuali nella prospettiva del presidio dell’ordine o della sicurezza sociali (cose comunque da buttare a cuor leggero), non ha efficacia a livello del cambiamento interiore. Le persone si possono certo costringere a fare qualcosa che non farebbero, ma non a volere qualcosa che non vogliono. L’autorità che impone è indubbiamente quella che non favorisce alcun cambiamento (se non, appunto, esteriore) e che viene percepita rapidamente come avversaria della persona, alimentando una sorta di effetto elastico: la disciplina dei comportamenti tiene finché c’è in giro l’occhio vigile del controllore, ma appena questo si distrae o cade in disgrazia si riprendono le abitudini e i modi di fare a cui si era precedentemente legati.
Tommaso d’Aquino ha posto questa evidenza come pietra angolare della sua psicologia (Cfr. Summa Theologiae, I-II, q. 6 a. 4), formulando in un certo modo un problema antropologico di fondo che investe anche la funzione dell’autorità: a quali condizioni siamo in grado di ascoltare, accogliere e praticare volontariamente indicazioni di vita che mettono in questione alcuni dei nostri modi abituali di fare e alcune delle ispirazioni familiari che avvertiamo in noi stessi?
Per vincere le nostre resistenze al cambiamento abbiamo bisogno di essere provocati, convinti del meglio che può profilarsi, e di essere sostenuti in un percorso graduale. Ma che cosa è in grado di dispiegare queste manovre?
Cambiare non è facile. Più l’esperienza diventa cospicua, più gli anni passano, più le abitudini si consolidano nella ripetizione e diventiamo via via meno propensi ad accogliere le novità. Preferiamo andare sul sicuro, come recita il detto: «Chi lascia la strada vecchia per la nuova, sa quello che lascia ma non sa quel che trova». Con il passare del tempo si diventa conservatori, conservatori di quel che c’è, nel bene e nel male. Al punto che ci si scopre legati – qualcuno pietosamente dice: affezionati – persino alle proprie cattive abitudini.
Precisiamo ancora: migliorare non è facile. Più si avanza in età, più la crescita umana diventa un lavoro di cesello: per modificare piccoli atteggiamenti ci vogliono molto impegno, vigilanza interiore, fedeltà nell’esercizio. Al contrario, lasciar perdere il lavoro su di sé, adagiarsi nel copia-incolla esistenziale, accomodarsi nel “sono fatto così, cambino gli altri” è semplice: basta tirare i proverbiali remi in barca e sposare la filosofia del “grande fiume trasportami”.
Di cosa abbiamo allora bisogno per la vita spirituale e per continuare a scolpire la nostra fisionomia personale secondo una logica di cambiamento, che sia una progressione nel bene e una regressione dai mali di cui inevitabilmente siamo coautori? Di cosa abbiamo bisogno per non diventare dei granitici conservatori, persone via via più rigide nelle proprie abitudini (quali che siano, anche quelle socialmente trasgressive, non illudiamoci)?
Abbiamo bisogno esattamente dell’autorità in tutti quei suoi aspetti diversi dalla coercizione, ovvero di una “voce” capace di farsi ascoltare, di sollecitarci verso quella prospettiva di bene che ancora non appartiene alle nostre inclinazioni e di accompagnarci strada facendo nell'affrontare la fatica. Abbiamo bisogno di una “voce” in grado di vincere le nostre resistenze con noi e non contro di noi, di una “voce” in grado di bypassare il ricorso alla costrizione.
In effetti il riconoscimento di un’autorità esteriore di questo tipo è quel che ci offre la possibilità di non essere esistenzialmente dei conservatori, fossilizzati nelle nostre abitudini (tra cui ce ne sono certo di buone, che però possono crescere, e altrettanto certamente di cattive che tuttavia si possono rimodellare) che la vita ha scolpito in noi nei primi anni della definizione del sé.
Se ora riprendiamo la definizione di Taylor della “cultura della autenticità”, forse riusciamo a scorgere meglio l’ambiguità che porta con sé.
L’ideale dell’espressività, dell’agire secondo se stessi, può essere sensato nelle stagioni iniziali della vita quando ciascuno si sperimenta – a proprio rischio e pericolo e auspicabilmente interagendo con altre figure adulte – nel dialogo con una pluralità di voci, spesso difficilmente discernibili da subito secondo il bene o il male. Tentare l’inedito e trasgredire rispetto al contesto è fisiologico nella stagione della ricerca del proprio posto nel mondo.
Tuttavia questo ideale, se lo proiettiamo su tutto l’arco della vita, e sulla stagione lunga della vita adulta in particolare, si trasforma presto nella grande trappola del conservatorismo esistenziale: fare esclusivamente “di testa propria” – al netto di ogni retorica dell’autonomia – è via via fare quel che semplicemente ci si è abituati a fare, invecchiando come adulti che sono la fotocopia ingrigita degli adolescenti che furono.
Per quanto possa sembrare strano, è da adulti che abbiamo maggiore bisogno di poterci misurare con una autorità consistente, non ottusamente coercitiva, ma capace di spiazzarci, di affascinarci, di convincerci a fare diversamente mostrandoci il meglio che possiamo ancora estrarre da noi stessi.
Se sono riuscito a tratteggiare la dinamica generale, e a mostrare che la funzione positiva dell’autorità esteriore è esattamente quella di sostenere le prospettive di cambiamento, quel che ovviamente rimane da discutere è quale, tra le tante, sia l’autorità concreta a cui affidarsi.
Se ci rendiamo disponibili a non essere noi stessi l’unica autorità ammissibile nel parlamento interiore, a cosa o chi altri consentiremo di prendere autorevolmente parola? Come riconosceremo l’autorità che concretamente indirizza al buon cambiamento, dal momento che – lo sappiamo – si può anche cambiare peggiorando il proprio profilo umano e la propria condizione?
Quel che possiamo fare è forse accertarci del pedigree, se così si può dire, delle diverse autorità che ci interpellano. Da tempo sono sempre più persuaso che il pedigree dell’autorità si chiama tradizione: una storia lunga di donne e uomini che hanno acconsentito a lavorare su di sé secondo indicazioni costantemente tramandate, ripulite da incrostazioni e verificate nei loro frutti di bene e di crescita, personali e relazionali. Dove manca la tradizione e prevale l’improvvisazione non è detto che manchi la capacità di scorgere il bene, ma spesso manca proprio quella di scorgere i passi falsi, le illusioni e i processi meno visibili di incubazione del male.
Ad Andrea Grillo e agli altri amici che sono intervenuti affido questa deviazione del dibattito nelle regioni della vita interiore; immagino poi che l’autorità nella Chiesa cattolica, nella misura in cui è voce di una Tradizione viva, sia da intendere nel senso di risorsa stabile per l’innovazione personale e sociale secondo il bene prospettato al Vangelo. Ma questo, come diceva Maritain, lo scrivo più che altro da research worker.
Solo una decina di giorni fa ha fatto discutere lo stile della conduzione di Paolo Ruffini dell’evento con le Scuole organizzato da Parole O_Stili: molti hanno trovato fuori luogo l’intercalare continuo con parolacce – non metto il termine tra virgolette, perché il suffisso peggiorativo ha pienamente senso –, l’attore si è difeso già dal vivo, dicendo che «creano empatia» e in seguito l’ideatrice dell’iniziativa, Rosy Russo, ha diffuso un post di scuse (delicato e coraggioso, che vale la pena di leggere proprio per imparare un po’ di stile). Ora è la volta di Flavio Insinna, colto in una serie di improperi fuori onda non proprio esaltanti, su cui Striscia sta insistendo in modo non limpido. I due casi, accostati, forse aiutano a capire meglio dove stia il nodo della questione.
Che le parolacce creino empatia è un mito da sfatare, vorrei chiarirlo subito. L’empatia è anzitutto una questione di ascolto, non di modo di esprimersi. È un percepire il mondo dell’altro per capirlo, per sentire il suo modo di porsi, non certo per replicarlo specularmente – mandando in onda dosi massicce di “c…o”, “m…a” etc. –, convinti di far leva sul micro-messaggio “sono dei vostri perché parlo come voi”. In una relazione autentica quel che fa camminare è avvertire che l’altro, specialmente se è un adulto, è “per me”, "con me", non “come me”. E allora anche una differenza di linguaggio, non per forza teorizzata, non bacchettona né enfatizzata, è importante. Lo scarto può far pensare. Non è detto che lo faccia, chiaro. Ma apre la possibilità di incontrare una differenza e di esaminarla. Se un adulto non usa un certo sproloquio non è perché lo ignori. È perché per qualche motivo sceglie di non utilizzarlo, sceglie – nel mondo omogeneizzato degli stili triviali – di ritagliarsi uno spazio di resistenza e di alternativa seria nei modi di interagire.
Nel linguaggio tutte le risorse espressive che non utilizziamo abitualmente finiscono fuori mano. Ci sono parole che diventano desuete, culturalmente lo sappiamo bene. Scegliere per se stessi di collocare fuori mano alcune precise parole – cosa che si fa solo evitando di impiegarle ricorsivamente – è sforzarsi di trovarne altre, di cercare modalità diverse per esprimere questa o quella percezione o idea. È una opzione stimolante e impegnativa, perché include anche la ricerca di modi alternativi di esprimere sentimenti forti, tesi, conflittuali. La scelta di dribblare il turpiloquio nelle situazioni ordinarie e meno cariche allena esattamente ad avere a disposizione parole migliori proprio nei frangenti più critici.
In questo senso ci aiuta il caso di Insinna. Non entro nel merito della manovra di Striscia, che – ripeto – non mi sembra limpida. Il conduttore si è espresso fuori onda con lo stile di linguaggio che evidentemente è abituato a utilizzare nella vita ordinaria, lì dove le parolacce “fanno empatia”, accorciano – si presume – le distanze, rendono tutto “più familiare” e “meno ingessato”. Solo che nel momento in cui si tratta di dar parola alla tensione, come può accadere in qualunque contesto di lavoro, il lessico a disposizione rimane sempre quello, le parole “a portata di mano” sono le stesse. E allora, anche se quel che volevo dire è che “il tal concorrente non mi è parso all’altezza di sostenere il livello di ingaggio richiesto dallo spettacolo che è previsto vada in scena per sollecitare il pubblico secondo le aspettative dell’azienda”, finisce che dico che “il tale è una m…a”. E qui tutta l’illusione di empatia legata a un certo fraseggio si scioglie come neve al sole, mentre quel che si libera in chi ascolta è una percezione amplificata di violenza, di assenza di rispetto, di supponenza e – se uno esercita un controllo del proprio linguaggio solo in onda, solo in contesti diversi dal parlare ordinario – di doppiezza. Che è poi quel che la gogna mediatica sta addebitando a Insinna in questo frangente, suscitando i prevedibili commenti degli anti-bacchettoni.
Il Manifesto della comunicazione non ostile recita «Si è ciò che si comunica. Le parole che scelgo raccontano la persona che sono: mi rappresentano». Da sottolineare: le parole che scelgo, con cui mi abituo ad esprimermi. Cioè: il lessico che seleziono per la vita tranquilla di ogni giorno, nelle quattro chiacchiere in simpatia, diventa il set di strumenti espressivi a cui ricorrerò anche nei momenti di tensione, per manifestare la mia contrarietà, il mio dissenso, il mio malessere. Perché in quei momenti, in cui tutto si consuma in pochi istanti, non sceglierò proprio nulla, ma andranno in onda le mie abitudini, coltivate - più o meno consapevolmente - nella ripetitività del quotidiano dire e fare.
Scegliere ordinariamente di evitare le solite quattro parolacce è un esercizio che mostra la sua forza di contrasto della violenza (se è questo che ci interessa) esattamente quando occorre: non a bocce ferme, quando tutto va liscio e discutiamo astrattamente di comunicazione, ma quando tutto precipita e ciascuno lancia verso l’altro quel che ha lentamente accolto, coltivato e reso “disponibile a scaffale” dentro di sé.
È positivo desiderare di saper scegliere parole che feriscano il meno possibile quando le relazioni vanno in sofferenza. Ma l’unico modo per sostenere questo desiderio è scegliere di non impiegare parole di bassa lega nel discorrere ordinario.
PS. E se volete esplorare la questione dell’empatia c’è il classico di Edith Stein: Il problema dell'empatia . Vedrete che il turpiloquio non c’entra proprio nulla.
Nelle giornate invernali di maltempo, specie se sferzate dalla Bora, il Carso riesce a farsi interprete di quell’angoscia che qualcuno più di altri si porta dentro. Le raffiche che alternano sibili e ululati sembrano inseguitori che non danno tregua, come certi pensieri opprimenti che incalzano di continuo togliendo il fiato. I boschi mezzi spogli, le latifoglie nude e scheletriche – che pure rifioriranno, ma non lo danno a vedere – si fanno specchio di ogni sentimento di resa. A uno di quegli alberi, una ventina di anni fa, era appesa una persona. E quello era il mio primo intervento di ricerca disperso, appena entrato in organico del Soccorso Alpino.
Nei frangenti dell’aiuto rischioso – come l’ha chiamato Spiro Dalla Porta Xydias – prima o poi si scopre che c’è anche lo spazio per i rinvenimenti più inquietanti e drammatici: cerchi di correre per portare in salvo una vita, ma questa nel frattempo cercava e ha trovato la morte. Quell’esperienza mi è tornata ancora una volta in mente in queste ore di interrogativi sulla vicenda di Dj Fabo.
Quando una persona sceglie di morire in un luogo poco raggiungibile, dopo il ritrovamento può capitare che ci voglia del tempo prima di poter rimuovere la salma: occorre attendere il medico legale e le autorizzazioni necessarie a procedere. Quel tempo – che in qualche circostanza può essere anche di alcune ore – è densissimo, e ciascuno prova letteralmente a ingannarlo come può, perché è un tempo carico di angoscia. C’è chi pronuncia tra le labbra una preghiera, chi si allontana un po’, chi si concentra sulle procedure, chi prova a sdrammatizzare con una battuta, chi guarda senza dire nulla, mentre il nodo alla gola se lo sente addosso.
Dinanzi a chi ha scelto la morte – molto più che non dinanzi a chi “semplicemente” è morto – ciascuno è come se si sentisse obbligato a dire perché vive, con la parola o con le movenze. In quei frangenti, e da cenni minimi, intuiamo che c’è chi vive lottando con l’Assoluto, chi cercando il distacco da dolore e inquietudini, chi vive per far funzionare il mondo, chi per renderlo meno serioso… Come pure c’è chi quella domanda sul senso del vivere non riesce a deglutirla e d’altra parte neppure a evitarla, sentendola aleggiare in un silenzio interiore scomodo, importuno, non risolvibile distraendosi un po’.
La morte scelta, per chi la accosta in prima persona, si trasforma in uno specchio, in cui ognuno vede svelato (e tende a rivelare) quel che dà consistenza alla propria – improvvisamente non più ovvia – scelta di vivere. È con questo personalissimo “tesoro nascosto” di motivazioni ed energie – e non con un più o meno fornito arsenale di valori astratti – che ciascuno poi si presenta agli appuntamenti faticosi dell’esistenza. Che non sono unicamente le situazioni limite, ma tutte quelle in cui rimanere lì dove si è chiede delle risorse spirituali capaci di bilanciare la fatica e lo star male per i pesi che gravano sulle spalle.
Forse è vero che ad ogni cambio di passo nella vita la decisione è se rimanere o andarsene. L’evangelista Giovanni ce lo ha mostrato anche nella storia dei discepoli di Gesù di Nàzaret, spaventati dalla durezza delle prospettive di passione e sollecitati dal maestro a misurarsi con la loro verità interiore proprio con questa domanda: «Volete andarvene anche voi?» (Gv 6,67).
Quel paio di scarpe da tennis un po’ infangate, sospese nel vuoto all’altezza degli occhi, mi interrogano ancora dopo vent’anni, e continuano a farlo non a proposito della mia libertà di andarmene – come avrei preferito allora, in quel bosco – ma della mia capacità di restare – ovunque la vita mi chieda fedeltà. L’effetto specchio, quando il contatto con la morte scelta è diretto, protegge dal farsi giudici del dramma di un’altra persona, ma allo stesso tempo espone implacabilmente all’autoanalisi. È una lezione doppia, in un’unica tessitura, che non si dimentica.
Oggi avverto con forza che anche quando discutiamo di vicende a noi distanti esistenzialmente, l’interrogativo sulla capacità di rimanere e di assorbire gli urti della vita non può essere distorto in una valutazione sulla resistenza altrui.
Non può però nemmeno esaurirsi nel dibattere della ridefinizione dei margini legislativi per andarsene.
Quell’interrogativo va onorato per quel che propriamente ci sollecita a saggiare: per che cosa scegliamo di vivere? Quanto questo “tesoro nascosto” nutre la nostra capacità di restare? Crediamo che la nostra fedeltà alle situazioni faticose – almeno fino a un certo punto – sia un bene di umanità per tutti? Abbiamo qualche possibilità per rinforzarci interiormente?
Come ogni morte scelta, anche il suicidio assistito di Fabiano Antoniani inevitabilmente ci sta provocando, ci scuote dalla nostra routine, ci mette allo specchio. Ma sapremo non disgiungere la riflessione legislativa sulla libertà di andarsene da quella esistenziale sulla (nostra, personale) capacità di restare? Credo che solo conservando intatta questa “figura di coppia” potremo evitare che la giusta riflessione sulle situazioni limite non alimenti sottotraccia una cultura ordinaria del sottrarsi e l’illusione che felicità faccia rima con facilità.
Come insegnava Maritain, l’umano si gioca più di quanto immaginiamo sulla accortezza del distinguere per unire: vale forse la pena di ricordarlo meditando e discutendo con altri dei fatti di questi giorni.
Tra venerdì 17 e sabato 18 febbraio Trieste ospiterà l’evento paroleostili.com. Si parte dal mondo dei social e della comunicazione online per misurarsi con il problema delle parole che sostengono la tessitura – o lo sfilacciamento – delle relazioni interpersonali. Con una tesi antropologica di fondo: non esistono il mondo “reale” e poi, scollegato e impermeabile, il mondo “virtuale”, mondi in cui poter mettere in gioco a proprio piacimento identità e stili diversi, magari pensando che tanto online è tutto finto e non accade nulla di serio. Tutto virtuale, appunto. Invece quel che noi siamo realmente si manifesta anche e ovunque nel nostro modo di esprimerci, nelle parole che scegliamo per raccontare le nostre idee, per promuovere le nostre convinzioni, per manifestare le nostre perplessità, il nostro disappunto, la nostra approvazione.
Nella mattinata di sabato gli organizzatori hanno immaginato di ospitare anche un panel che considero difficile, intitolato “In nome di Dio”. Difficile perché, a dispetto del titolo, non vuole mettere in causa le religioni, ma far riflettere sul nostro modo di parlare delle realtà a cui teniamo di più, sul modo di presentare le nostre convinzioni più profonde, quelle che custodiamo “religiosamente”, quelle per cui saremmo pronti a “sacrificare” ogni cosa. Quelle per cui siamo anche più sensibili e suscettibili se qualcuno le “tratta male”. Quelle che, a partire dall’esperienza di vita che ne abbiamo, per noi sono vere, anche se altri non ci credono. Un panel difficile, perché prova a tenere le questioni di stile vicinissime a quelle di contenuto.
Nelle due ore a disposizione interverranno ospiti che in modi diversi hanno a che fare con questo genere di comunicazione e di “materia”, plastica e incandescente. Ci aiuteranno a riflettere sui vicoli ciechi in cui talvolta ci si infila immaginando di “dire bene”, ritrovandosi invece invischiati in scambi e conflitti ad alto tasso di ostilità; ci racconteranno quali sono le loro attenzioni nella cura di uno stile e nella scelta delle parole; ci provocheranno, facendoci notare che talvolta per farsi capire da nuovi interlocutori accade di usare linguaggi ed espressioni che scontentano vecchi amici; ci mostreranno come si possa sorridere di quel che è prezioso senza infangarlo, ma magari togliendo a se stessi quella patina di seriosità di troppo, che tutti ci portiamo appresso quando parliamo delle nostre “cose sacre”, quali che siano.
Ci saranno insomma spunti diversificati, che poi spetterà a chi parteciperà in sala raccogliere e rilanciare agli ospiti, per qualche parola in più. Senza l’ansia di concludere, ma con il desiderio di iniziare un confronto, anche con la curiosità di vedere cosa accade e se i suggerimenti del Manifesto della comunicazione non ostile troveranno applicazione nei modi della discussione dal vivo.
L’appuntamento è per sabato 18 alle 11:00 alla Stazione Marittima di Trieste, che ogni tanto qualcosa di culturalmente innovativo germoglia anche lì dove non arriva l’Alta Velocità e dove in molti rimaniamo affezionati ai garbati e lenti modi ottocenteschi.
Gli aggiornamenti sugli ospiti che interverranno e il format di iscrizione per partecipare si trovano qui: http://www.paroleostili.com/aree-tematiche/in-nome-di-dio/
In una recente intervista il cardinale Caffarra ha proseguito la discussione sulle novità di Amoris Laetitia riguardo gli sposi cristiani in situazione di separazione e di nuove unioni, ponendo la questione in questi termini: «Il problema nel suo nodo è il seguente: il ministro dell’eucaristia (di solito il sacerdote) può dare l’eucaristia a una persona che vive more uxorio con una donna o con uomo che non è sua moglie o suo marito, e non intende vivere nella continenza?» E prosegue: «Nessuno per altro mette in questione che Familiaris consortio, Sacramentum unitatis, il Codice di diritto canonico, e il Catechismo della Chiesa cattolica alla domanda suddetta rispondano No. Un No valido finché il fedele non propone di abbandonare lo stato di convivenza more uxorio. Amoris laetitia ha insegnato che, date certe circostanze precise e fatto un certo percorso, il fedele potrebbe accostarsi all’eucaristia senza impegnarsi alla continenza? Ci sono vescovi che hanno insegnato che si può. Per una semplice questione di logica, si deve allora anche insegnare che l’adulterio non è in sé e per sé male».
Il punto nodale del cardinale è il tener ferma la prescrizione della continenza. Questa prescrizione è in effetti l’elemento costante che compare nei documenti ecclesiali dagli anni Ottanta ad oggi, scomparendo però in Amoris Laetita. Nei documenti del magistero di riferimento, tuttavia, il significato di questa indicazione cambia in modo piuttosto marcato, rendendola per certi versi un controsenso. Amoris laetitia, impostando il discorso in modo molto più centrato sul percorso delle persone verso la riconciliazione che non sulla suddetta prescrizione come conditio sine qua non universale, risolve (anche) il problema dell’assurdo antropologico che si è venuto a creare. Queste sono le tesi. E provo ad argomentarle in una riflessione più lunga del solito, a titolo di research worker, come suggeriva Maritain.
Domande e risposte
Come tutti sappiamo bene, lo sviluppo di molte discussioni dipende anche dalle domande da cui si parte. Caffarra vuole un sì o un no (e offre ragioni per il no) sul nodo specifico dell’accesso alla comunione eucaristica senza il rispetto della prescrizione della continenza. Credo che la questione si possa affrontare in modo più completo e coerente rispetto all’eredità della piccola tradizione di questi ultimi 40 anni partendo da un altro quesito, con cui interrogare proprio i documenti: la Chiesa cattolica propone dei percorsi di riconciliazione alle persone che dopo un divorzio hanno contratto seconde nozze (o convivono more uxorio) violando – come evidenzia anche il Catechismo – «il segno dell’Alleanza e della fedeltà a Cristo»? Se sì, quali sono ad oggi?
Eventuali “condizioni” hanno senso nel quadro di un “percorso”.
Un’esigenza indilazionabile
L’ormai nota prescrizione compare nel 1980 nell’Omelia di Giovanni Paolo II alla chiusura del V Sinodo dei Vescovi, che aveva affrontato la situazione dell’istituto familiare, sempre con un occhio in fondo privilegiato al Vecchio Continente e alla cultura occidentale. L’introduzione del divorzio, a partire dagli anni Sessanta ma poi diffusamente dagli anni Settanta – in Italia e altrove – aveva portato alla luce non solo il collasso di molte coppie, ma anche una tensione a ricomporne di nuove. La precedente assenza della possibilità civile delle seconde nozze aveva fatto a lungo da velo ad una richiesta esistenziale di riconoscimento delle relazioni di tipo sponsale sorte dopo il primo (e allora anche civilmente unico) matrimonio. A lungo cioè si era potuto pensare (e forse illudersi) che alla bassa evidenza di queste richieste – le nuove coppie che sfidavano la società vivendo ostentatamente more uxorio difficilmente erano visibili nelle comunità cristiane – potesse corrispondere un consenso diffuso sul fatto che, per chi attraversava delle difficoltà, la conclusione estrema del collasso delle prime nozze rimanesse la separazione. Oltre a questo, nessun altro scenario. In altre parole: il tema delle seconde nozze come adulterio non poteva esistere semplicemente perché non esistevano seconde nozze civili, non perché non esistessero l’adulterio o il desiderio di dar vita a nuove unioni. Tuttavia, nel cono d’ombra di questa impossibilità giuridica civile si è, per così dire, coccolata a lungo l’illusione che reggesse anche un interdetto morale rispetto all’avvio di una nuova unione, almeno tra i battezzati.
La “diga morale” tra separazione degli sposi e formazione di successive nuove convivenze avrebbe davvero tenuto?
Negli anni Ottanta l’illusione era ormai svanita, e anche la Chiesa cattolica iniziava a ritessere il filo di un problema non nuovo – quello appunto delle seconde unioni dei battezzati – ora però diventato numericamente rilevante.
Si trattava di indicare semplicemente delle condizioni per accedere alla comunione oppure di proporre dei percorsi di riconciliazione, che potessero giungere anche al segno della mensa eucaristica?
L’impressione, stando ai testi, è che l’idea del “percorso” sia stata quella principale fin dall’inizio.
Anni Ottanta, Chiusura della V Assemblea generale del Sinodo dei Vescovi e Familiaris consortio
Nell’omelia del 25 gennaio 1980 in occasione della chiusura del Sinodo, Giovanni Paolo II aveva dedicato un passaggio preciso rivolto ai battezzati che, avendo contratto seconde nozze – solo per semplicità: i “divorziati-risposati” –, desideravano ritornare nella pienezza della comunione; queste persone, aveva detto,
«possono ricevere, se ne ricorrano le condizioni, il sacramento della penitenza e quindi la comunione eucaristica, quando sinceramente abbracciano una forma di vita, che non contrasti con la indissolubilità del matrimonio - cioè quando l’uomo e la donna, che non possono soddisfare l’obbligo della separazione assumono l’impegno di vivere in piena continenza, cioè di astenersi dagli atti propri dei coniugi» (nr.7).
La Familiaris consortio proseguiva a un anno di distanza recependo e citando testualmente questa indicazione, con lievissime differenze di contorno:
«La riconciliazione nel sacramento della penitenza - che aprirebbe la strada al sacramento eucaristico - può essere accordata solo a quelli che, pentiti di aver violato il segno dell'Alleanza e della fedeltà a Cristo, sono sinceramente disposti ad una forma di vita non più in contraddizione con l'indissolubilità del matrimonio. Ciò comporta, in concreto, che quando l'uomo e la donna, per seri motivi - quali, ad esempio, l'educazione dei figli - non possono soddisfare l'obbligo della separazione, “assumono l'impegno di vivere in piena continenza, cioè di astenersi dagli atti propri dei coniugi”» (nr. 84).
Che si tratti di un “percorso” si intuisce da molti elementi, forse il più evidente è la maggiore distensione che nell’Esortazione riceve il passaggio dalla penitenza al reintegro pieno nella comunione. Lì dove il papa poneva un breve “quindi”, il documento rallentava il processo con un condizionale all’interno di un inciso: la riconciliazione «aprirebbe la strada» alla mensa eucaristica.
Qual era però il percorso nella sua completezza? Non ci sono dubbi: l’esito del percorso è «soddisfare l’obbligo della separazione» di questa nuova coppia. L’ormai nota prescrizione si inserisce così all’interno di questo percorso, riferendosi ad un “caso” molto specifico, che è quello di una decisione ormai presa per la separazione, ma materialmente e pro tempore non attuabile. Come dire: l’attenzione della Chiesa andava a questo “nel frattempo”, il frattempo dell’educazione dei figli, che rimane l’unico esempio consistente e chiaramente a termine aggiunto in Familiaris consortio a chiosa dell’indicazione di Giovanni Paolo II. L’attenzione andava a questo caso particolare, dando in fondo per ben inteso che la via maestra verso il ritorno alla mensa eucaristica era la pronta separazione a tutti gli effetti. Si provava dunque a immaginare che cosa potesse esprimere il senso di una separazione decisa e esistenzialmente avvenuta, nonostante questa non potesse ancora realizzarsi materialmente.
Siamo, ricordiamolo almeno per l'Italia, a pochi anni dal referendum sul divorzio e "tecnicamente" non possono esistere che seconde nozze con storie coniugali molto brevi e, al caso, con figli molto piccoli. Eppure la Chiesa già si sporge con una attenzione speciale verso queste persone con le loro vite proponendo un percorso ad hoc.
Per capire però fino in fondo il senso della prescrizione all’interno di questo percorso “speciale” occorre aggiungere qualche semplice annotazione di carattere antropologico.
Relazione sponsale e unione sessuale
Ad ogni corso prematrimoniale i formatori insistono su un dato antropologico che in effetti dovrebbe essere evidente: l’unione sessuale è un gesto così capace di esprimere l’intimità di una relazione, al punto da portarsi appresso anche l’attesa di una esclusività a tempo indeterminato, che poi avvolge e colora una gamma molto ampia di gesti. Tu sei per me e io per te come nessun altro per sempre. A meno di non ridurre l’umano a una meccanica del piacere sensuale, da qui tutti partiamo. Misurandoci ben presto – idealmente, concretamente, educativamente… – sulla grandezza dell’orizzonte e sulla capacità di tendere questo arco di donazione ordinaria e reciproca per tutti i giorni della vita. La fedeltà è quella tenuta del nostro desiderio di donarci in via esclusiva per sempre, facendo di noi stessi qualcosa di unico per l’altro/a. L’unione sessuale si inserisce allora in una storia, che è fatta di infiniti altri gesti ordinari di donazione “in esclusiva”, e ben si presta a diventare non solo l’emblema, ma anche (salvo difficoltà di altro tipo) e più direttamente il sintomo della salute e della consistenza della relazione stessa.
Qui è interessante osservare che le coppie che attraversano una crisi che sta evolvendo verso una estraneità reciproca sempre più forte sospendono ben presto proprio l’intimità sessuale, perché questa unione – ovviamente lì dove è libera e non segnata da violenza – è un’espressione fortemente intuitiva di intesa, che non riesce a coesistere (se non a prezzo di penose finzioni) con una condizione di lontananza reciproca o di tensione. Figuriamoci poi se di avversità.
In prospettiva antropologica relazione di tipo sponsale e unione sessuale sono, nel bene e nel male, legate a doppia mandata: simul stabunt et simul cadent.
Nel percorso “speciale” immaginato in Familiaris consortio per chi si trova impossibilitato a dare esecuzione alla separazione, questa evidenza antropologica è pienamente rispettata nella sua sostanza, ma viene utilizzata in modo rovesciato.
Riconoscendo che nella fisiologia della sponsalità l’interruzione dell’intimità sessuale è sintomo di una tensione e che la sua revoca definitiva equivale ad una separazione avvenuta, si fa leva su questo riconoscimento, trasformandolo però in una sorta di caparra. Così, pur in presenza di molti dei modi del vivere sponsale (la coabitazione, la cura condivisa dei figli etc.) – che in se stessi esprimerebbero una volontà di mantenere e non di interrompere la relazione – l’assenza dell’intimità sessuale basta per la Chiesa per riconoscere a queste persone di aver intrapreso il percorso di separazione, di aver già sciolto il more uxorio e quindi di poter in un certo senso anticipare i passi di rientro pieno nella comunione, precisamente in quanto «sinceramente disposti ad una forma di vita non più in contraddizione con l’indissolubilità del matrimonio».
Vale la pena di osservare che questo percorso “speciale” non può essere inteso come una concessione a chi desidera mantenere la nuova unione. Che la nuova unione vada interrotta è negli anni Ottanta fuori discussione. La specialità del percorso consiste nel tener conto delle “cause di forza maggiore” che impongono il perdurare della convivenza, offrendo ai fedeli la possibilità di avanzare comunque nella riconciliazione, posto sempre che si sono già decisi per la cessazione di un modo di vita sponsale. È una possibilità però ancor più ardua del percorso ordinario di chi smette la convivenza soddisfacendo da subito l’«obbligo di separazione». Vale il detto: lontano dagli occhi, lontano dal cuore. La decisione di separarsi è certamente difficile e comporta una lotta contro il desiderio, ma, una volta presa, sostenerla per giunta nel perdurare della vicinanza fisica è ancora più difficile.
Dunque, riepilogando: inizio anni Ottanta, un unico percorso di riconciliazione, ovvero la separazione della nuova coppia. Nel percorso una variante speciale, pensata per le situazioni in cui la separazione materiale va ritardata per ragionevoli e seri motivi. Nella variante speciale una prescrizione, che può essere compresa – con piena coerenza dal punto di vista antropologico – nella figura della “caparra” o comunque del segno che attesta l’avvenuta separazione morale (diciamo così, per capirci).
Anni Novanta, Catechismo della Chiesa Cattolica
Passano dieci anni, è il 1992 ed esce il Catechismo della Chiesa Cattolica rinnovato dopo il Concilio Vaticano II. Il tema delle coppie formatesi dopo un divorzio viene ripreso, con qualche variazione però. Al nr. 1650 si ribadisce che aver contratto seconde nozze «oggettivamente contrasta con la legge di Dio» e che da questo discende che i battezzati che hanno creato una nuova unione «non possono accedere alla comunione eucaristica per tutto il tempo che perdura tale situazione». Ritroviamo quindi anche le stesse indicazioni di Familiaris consortio:
«La riconciliazione mediante il sacramento della penitenza non può essere accordata se non a coloro che sono pentiti di aver violato il segno dell’Alleanza e della fedeltà a Cristo, e si sono impegnati a vivere in una completa continenza».
Quel che è caduto è il richiamo al contesto di questa prescrizione. Non troviamo più esplicitato il fatto che “il percorso” è da intendersi come quel processo che conduce alla separazione della nuova coppia, né è altrettanto evidente che la prescrizione della continenza si inserisca nella logica del percorso speciale per chi ha deciso per la separazione ma ne è materialmente impedito pro tempore. È sottinteso? È davvero così chiaro?
Troviamo invece una serie più ricca di indicazioni che riguardano evidentemente lo stato di vita di coppie in cui la decisione è quella di proseguire la propria storia nella seconda unione, indicazioni che peraltro riprendono Familiaris consortio: invito all’ascolto della Parola, all’impegno nella carità etc. (nr. 1651).
L’impressione è che in qualche modo, senza il richiamo ravvicinato all'obiettivo della separazione, la prescrizione della continenza inizi a scivolare fuori dal percorso "speciale”, per candidarsi a diventare una condizione più generale, posta alle coppie di battezzati risposati civilmente che non intendono effettivamente separarsi, ma che continuano a cercare e chiedere un percorso di riconciliazione.
Non dico che questo scenario sia già aperto nelle intenzioni redazionali del Catechismo, ma si inizia a cogliere che chiede una più attenta considerazione la situazione di quanti – come dirà poi Amoris Laetitia – «vivono una seconda unione consolidata nel tempo, con nuovi figli, con provata fedeltà, dedizione generosa, impegno cristiano, consapevolezza dell’irregolarità della propria situazione e grande difficoltà a tornare indietro senza sentire in coscienza che si cadrebbe in nuove colpe».
Siamo, in fondo, negli anni Novanta e possono esserci ormai storie di seconde nozze con diversi anni di vita insieme dopo un divorzio e con figli grandi.
2007, Sacramentum Caritatis
La Sacramentum Caritatis (che essendo l’Eucarestia è anche Sacramentum unitatis come riporta nell’intervista Caffarra, ma non nel titolo dell’Esortazione di Benedetto XVI) riprende ancora il Catechismo e l’ormai nota prescrizione, ma ora è chiaro che il quadro è cambiato:
«Là dove non viene riconosciuta la nullità del vincolo matrimoniale e si danno condizioni oggettive che di fatto rendono la convivenza irreversibile, la Chiesa incoraggia questi fedeli a impegnarsi a vivere la loro relazione secondo le esigenze della legge di Dio, come amici, come fratello e sorella; così potranno riaccostarsi alla mensa eucaristica, con le attenzioni previste dalla provata prassi ecclesiale» (nr. 29).
Qui compare il tema di una relazione da vivere e viene acquisito il riconoscimento di una irreversibilità esistenziale di molte nuove unioni. È a questa condizione che ora ci si rivolge, una condizione ben diversa da quella impossibilità pro tempore a dar corso ad una separazione già decisa (e in una fase tutto sommato iniziale della nuova unione).
Non credo sia ammissibile una ambiguità a questo proposito: non è a tema il percorso per chi aveva maturato la decisione di separarsi e poteva senza seri motivi di impedimento percorrere quella via per la riconciliazione. Quel percorso rimane aperto e lineare e molti possono trovarsi in quelle condizioni. Ma qui non si tratta neppure di allestire una macroscopica finzione, immaginando che tutte le coppie di divorziati-risposati che chiedono un percorso abbiano deciso in cuor loro per la separazione ma siano impossibilitate a darvi seguito da chissà quali avversità di ordine materiale, diverse dall’attenzione educativa verso i figli. Qui ormai si tratta – come appunto si legge nel documento – di individuare un percorso che consenta ai battezzati divorziati-risposati di «vivere la loro relazione», tracciando un itinerario di riconciliazione che possa ricondurre alla mensa eucaristica perdurando quella relazione, che rimane innegabilmente di tipo sponsale.
L’esigenza di un nuovo percorso – che, ripeto, proprio per la diversità delle condizioni riconosciute, non toglie validità al precedente – se non è maturata sta maturando. Siamo ormai, si può dire, nella logica plurale: esistono percorsi di riconciliazione, non solo quello codificato negli anni Ottanta.
Nell’apertura di questa “variante di valico” transita anche la nota prescrizione della continenza. Che ora, mutata la condizione a cui si guarda, inevitabilmente vede alterato il suo senso antropologico iniziale: se non è più caparra e segno anticipatorio – dal momento che cade non più su chi ha deciso per la separazione, ma su quanti chiedono o comunque ritengono di mantenere la nuova durevole unione – che cosa diventa?
Le possibilità sono in effetti due: o diventa una sorta di esercizio spirituale oppure rimane, come segno esistenziale, un assurdo antropologico. Bisogna ricordare bene il legame a doppia mandata richiamato sopra: l’unione sessuale è sintomo di una relazione in (sempre relativa) buona salute, viceversa la sua interruzione è sintomo di separazione e di sopraggiunta estraneità reciproca. Chiedere ad una coppia a cui si è riconosciuta la condizione di irreversibilità – cioè, al netto di impietose finzioni, l’esistenza di una relazione durevole con l’intenzione di confermarla – di ospitare il segno esistenziale che attesterebbe l’esatto contrario è semplicemente senza senso.
Per questo sostengo che l’«assunzione dell’impegno» della completa continenza, sensatissima nel percorso “speciale” posto negli anni Ottanta da Giovanni Paolo II, diventa una contraddizione nel momento in cui viene meccanicamente trasportata all’interno di altri (eventuali) percorsi di riconciliazione, pensati – o meglio da pensare – per quanti non hanno più come orizzonte quello della revoca della nuova unione.
Benedetto XVI, come più di qualcuno ha fatto notare, ha scritto che «la Chiesa incoraggia a-», modificando la perentorietà di quella richiesta di «assunzione di impegno» alla completa continenza degli anni Ottanta. L’ottica dell’incoraggiamento evidenzia certamente la dimensione del percorso, tuttavia bisogna ammettere che rimane irrisolta una ambiguità. Chiediamoci: nella prospettiva della riconciliazione, le coppie in questione sono incoraggiate a soddisfare la richiesta di separazione, cioè a maturare quella reciproca distanza e tutte quelle forme di estraneità che revocano la forma di vita sponsale, ma ora solo più progressivamente? Oppure sono incoraggiate a compiere un esercizio spirituale che le aiuti, pur mantenendo e curando la nuova e durevole relazione, a maturare una coscienza più profonda della violazione «del segno dell’Alleanza e della fedeltà a Cristo» che le loro vite hanno conosciuto?
Nel primo caso si tratterebbe di un “ammorbidimento” del percorso “speciale” degli anni Ottanta, con il riconoscimento non tanto della consistenza della nuova relazione dentro cui lavorare ma della titubanza a decidersi per interromperla, una debolezza di cui tenere conto e per cui fare qualche sconto. Questa prospettiva non mi pare convincente, perché genera esattamente quella confusione che molti denunciano: si ammetterebbe cioè che in quel “nel frattempo” (che qui sempre si continua a supporre che intercorra in vista del soddisfacimento dell’obbligo di separazione) non sono le oggettive situazioni esteriori il problema, bensì una intenzionalità ondeggiante, un “proviamoci però non ne siamo convinti”, a cui rispondere con un più blando “incoraggiamento a-”, disponibili a chiudere un occhio insomma, a seconda della larghezza di manica del confessore.
Nel secondo caso invece non si tratterebbe di un “ammorbidimento”, ma appunto di un altro percorso, in cui diventa significativo proprio l’esercizio spirituale, che aiuta a entrare più radicalmente in contatto con la verità della propria storia, con la ferita che porta con sé e con lo sguardo di misericordia di Dio. È chiaro però che l’esercizio spirituale – quale che sia, compresa l’astinenza dall’unione sessuale – non può essere né una prescrizione standard né qualcosa di permanente.
2016, Amoris laetitia
Sul capitolo ottavo di Amoris laetitia è stato scritto già moltissimo. Quanto al tema specifico mi limito a far notare che riferendosi alle persone che hanno contratto seconde nozze l’espressione cauta che ricorre è anzitutto «situazioni dette “irregolari”», segno non certo di minimizzazione delle difficoltà ma di prudenza nel fare di tutte le erbe un fascio. Proprio esplicitando questa diversità di situazioni viene richiamato il passo di Familiaris consortio che riconosce l’impossibilità di «soddisfare l’obbligo della separazione»:
«I divorziati che vivono una nuova unione, per esempio, possono trovarsi in situazioni molto diverse, che non devono essere catalogate o rinchiuse in affermazioni troppo rigide senza lasciare spazio a un adeguato discernimento personale e pastorale. Una cosa è una seconda unione consolidata nel tempo, con nuovi figli, con provata fedeltà, dedizione generosa, impegno cristiano, consapevolezza dell’irregolarità della propria situazione e grande difficoltà a tornare indietro senza sentire in coscienza che si cadrebbe in nuove colpe. La Chiesa riconosce situazioni in cui “l’uomo e la donna, per seri motivi - quali, ad esempio, l’educazione dei figli - non possono soddisfare l’obbligo della separazione”» (nr. 298).
Qui si percepisce il respiro più ampio con cui viene recepito il documento precedente, e proprio grazie alla distensione dell’esemplificazione dei seri motivi: ora si capisce bene che in diversi casi difficilmente questi possono essere temporanei, concepibili come un fattore al momento inaggirabile ma comunque solo di ritardo nel percorso verso la separazione. Ora i seri motivi sono esattamente ed esplicitamente tutto ciò che dà consistenza a quella “relazione da vivere” di cui è comparsa la traccia anche in Sacramentum Caritatis: infatti alla presenza dei figli si uniscono – differentemente caso per caso – i diversi tratti di valore della relazione di intimità (durata, fedeltà – dunque tempo trascorso –, dedizione – a chi, se non reciproca? –, impegno, coscienza del peso delle fratture che si hanno alle spalle). Lì dove si danno questi tratti – che sono la sostanza antropologicamente buona di una relazione di tipo sponsale, a cui non possono che accompagnarsi i gesti sintomatici che la caratterizzano – il comprometterli è quel che in coscienza è avvertito come il cadere «in nuove colpe».
Riconosciuto in tutta chiarezza il dilemma del che fare in queste situazioni – individuabili non in astratto ma solo caso per caso – le possibilità non sono poi tante.
O si ribadisce che l’unica via di riconciliazione e reintegro nella comunione piena è quella che conduce come esito alla separazione (unico percorso tipico in Familiaris consortio, con relativa variante speciale). E qui rientra sensatamente, nel percorso "speciale", la prescrizione della completa continenza, come caparra di una decisione presa. Ma per le situazioni di cui sopra siamo allo scacco matto. E non è questa la logica della Chiesa.
Oppure ci si interroga su quali possano essere i diversi percorsi sensati di riconciliazione proprio per queste diverse situazioni, avendole riconosciute come irreversibili e portatrici quantomeno di alcuni dei segni tipici dell’unione sponsale.
Amoris laetita incoraggia a procedere in quest’ultima direzione. E forse non a caso per la prima volta dagli anni Ottanta ad oggi omette il richiamo esplicito e testuale alla questione della continenza come conditio sine qua non per tutte le condizioni esistenziali. In questo modo non toglie soltanto un assurdo antropologico ma anche e forse soprattutto un facile alibi per liquidare rapidamente in confessionale i battezzati che chiedono un cammino: in fondo avere un unico parametro da verificare per evadere una pratica – continenza sì/continenza no – solleva dalla fatica di accompagnare le persone in una ben più ampia consultazione della vita, dei passi via via compiuti, dei frutti dello Spirito eventualmente emersi, dei prossimi movimenti di conversione a cui indirizzarsi e degli esercizi spirituali più opportuni per sostenerli.
Il prezzo vero della revisione di questa prescrizione (lì dove diventa una contraddizione con la vita di relazione riconosciuta) non è affatto la rinuncia alla dottrina e il dichiarare «che l’adulterio non è in sé e per sé male». Il prezzo vero è il tempo e la cura che i pastori dovrebbero dedicare all’ascolto delle vite particolari e all’accompagnamento spirituale delle persone. Questa, in un mondo frenetico come il nostro, è la vera posta che manca all’appello – anche incolpevolmente, per seri motivi e per cause di forza maggiore, sia chiaro – e senza la quale la logica del “percorso” e degli esercizi spirituali che possono sostenerlo e rinforzarlo cede rapidamente il posto a quella della fugace verifica delle condizioni per attraversare una dogana.
Capita spesso di incontrare un gioco grafico legato al verbo “sostare”: se inseriamo un trattino (so-stare) riusciamo a suggerire immediatamente l’idea che per imparare a stare – in un luogo, con altri e anche con se stessi – occorra fermarsi, e prendersi il tempo necessario per coltivare quella capacità di abitare bene nel mondo, che non viene da sé semplicemente con il passare degli anni. Fermarsi, rallentare e magari anche ritirarsi per un po’ è necessario proprio per fare dei passi avanti nella maturità. Chi non si ferma mai vive nell’illusione di avanzare più rapidamente, ma in realtà finisce per correre sì sempre più velocemente, ma in cerchio, spesso trovandosi a replicare continuamente gli stessi modi di fare e di pensare: è l’esperienza dell’“eterno ritorno dell’uguale” o, più semplicemente, del prevalere della forza dell’abitudine.
Un semplice trattino nella scrittura aiuta già a evocare molte cose che probabilmente risuonano a partire dalla vita ordinaria. Possiamo però riflettere su qualcosa di ancora più curioso se osserviamo che il verbo latino substo, substare non ha originariamente come significato primario quello del fermarsi…
Substare costituisce la base per una rosa di termini che hanno avuto grande importanza nella storia del pensiero occidentale, primo tra tutti substantia, sostanza: letteralmente “ciò che sta sotto”, che sostiene e dunque che ha consistenza, che individua l’essenziale che rimane.
In senso derivato poi tutto quel che substat, tutto ciò che ha consistenza e che rimane stabile, oppone anche resistenza: non si presta ad essere travolto o stravolto con facilità. Da questo punto di vista allora possiamo capire che sostare può anche implicare il fatto di fermarsi, ma l’idea alla radice non è tanto quella della pausa agognata o del rallentare dopo aver tagliato un traguardo, quanto piuttosto quella della caduta per aver inciampato su un ostacolo, che immaginavamo di poter rimuovere con un leggero tocco e che invece si è rivelato ben più consistente.
Abbiamo così davanti a noi due suggestioni ugualmente interessanti e tra loro legate: anzitutto c’è l’annotazione disincanta che ci ricorda che – al di là dei nostri propositi – per lo più nella vita ci fermiamo a riflettere su quel che ci sta accadendo solo quando inciampiamo, quando i nostri piani vanno a rotoli, quando la realtà – fatta di contesti, di mezzi e soprattutto di relazioni – oppone resistenza alla realizzazione dei nostri desideri. Poi c’è il rilancio “filosofico”: una volta che nostro malgrado ci siamo fermati, abbiamo l’occasione per fare il punto sulla situazione ovvero per andare alla sostanza di noi stessi. Abbiamo dunque l’opportunità di chiederci in cosa consiste l’essenziale del nostro percorso, del nostro progetto di vita, del nostro correre: che cosa “sta sotto”?
La prima suggestione può essere di aiuto per rivalutare l’esperienza del fallimento, della caduta o comunque del “cambio di programma” forzato dei propri progetti: indubbiamente si tratta di passaggi vissuti soggettivamente quantomeno come spiacevoli; talvolta possono assumere anche contorni drammatici. Sono però proprio questi i momenti in cui si interrompe la corsa o si spezza una routine, in cui occorre valutare qualche alternativa, qualche cambiamento. Tutto questo genera da sé una situazione di sospensione, “regalando” proprio quel tempo di sosta che finché tutto procede senza intoppi molto probabilmente non ci saremmo mai concessi. Il fallimento non è mai il benvenuto, ma questo non significa che sia un passaggio inutile alla vita: al contrario, regala – per quanto in modo sgradevole – possibilità molto concrete di sostare. E, dunque, possibilità di ripartire in crescita, avendo imparato come stare meglio al mondo.
La seconda suggestione mette invece in guardia dal pensare che la sosta sia un tempo di riposo, un tempo di distensione. Ci sono, e ci vogliono, anche pause di questo tipo. La sosta che si origina dalle resistenze della vita è però diversa: chiede lavoro e discesa in profondità, diventa feconda solo se la si attraversa come una opportunità di andare alla sostanza. Il tempo della “convalescenza” dopo la caduta finisce sprecato se lo si impiega solo per prendere le distanze dalla difficoltà, confidando di ricominciare come prima e magari di dimenticare. Occorre trovare modi per scendere verso le radici di se stessi, per comprendere da dove nascano abitudini, modi di relazionarsi e di pensare, progetti di cambiamento, desideri che proiettano nel futuro.
Questi “modi” di accedere alla propria sostanza erano noti agli antichi come “esercizi spirituali”; la tradizione cristiana ha poi approfondito gli spunti dei filosofi, sviluppando una comprensione originale ed accurata delle dinamiche della vita interiore. Questo patrimonio merita di essere riscoperto e approfondito proprio da chi si trova a dover sostare e – insieme – da chi si mette a disposizione delle persone in sosta, perché il tempo che queste, loro malgrado, hanno a disposizione possa diventare un’opportunità di crescita e di cambiamento in meglio del vivere.
Il contributo si trova in pdf sul sito della Caritas di Padova
Il Ministero della Salute ha lanciato la campagna del #FertilityDay ed è stata subito polemica. Saviano si è sentito investito del ruolo di portavoce degli “insultati” e ha mobilitato con un tweet la platea socialmediatica. Con lui molti opinionisti hanno proseguito spiegando chi gli aspetti intrinsecamente offensivi della campagna, chi la gaffe di tipo comunicativo. Il cortocircuito che un po’ tutti hanno evidenziato sta nel fatto che una iniziativa – comunque prevista nel quadro della legge 40 – che doveva essere di tipo informativo è stata percepita come una campagna di tipo morale. Era possibile evitarlo? Credo proprio di no. E credo che se analizziamo con un po’ di attenzione questo episodio abbiamo anche la possibilità di cogliere qualcosa di più a proposito delle difficoltà morali inedite che sorgono quando la tecnica ci mette silenziosamente a disposizione nuovo potere sulla fisiologia corporea.
Di per sé l’oggetto della campagna non è una questione morale ma, appunto, fisiologica. La curva della fertilità del genere umano è, come molti altri aspetti legati alla corporeità, una parabola prima ascendente e poi discendente, rispetto a cui la “personalizzazione” dovuta alle nostre diversità individuali sposta di poco i termini. I ginecologi lamentano il fatto che molte persone – strano ma vero – ne siano all’oscuro e, apprendendolo, si rammarichino di non averlo saputo e di aver fatto conto che prima o dopo (sempre da un punto di visto fisiologico) sarebbe stato uguale.
Eppure il messaggio che è passato è che l’esortazione a “fare presto” fosse di tipo morale, un rimprovero del tipo: non siate pigri e indolenti.
Era inevitabile che andasse così, e questo non dipende principalmente dalla imperizia dei pubblicitari che hanno ideato gli spot, ma dal fatto che oggi, molto più di qualche tempo fa, mettere al mondo dei figli è qualcosa che una coppia può controllare agevolmente sul piano della relazione sessuale. Oggi tutti percepiamo cioè che fare figli è anzitutto una libera scelta, e questo proprio perché si può optare anche per il contrario, si può decidere di non farli all’interno di una vita stabile di coppia.
Ma dove c’è scelta, ci piaccia o no, c’è morale.
Questo ingresso della generatività fisica nell’ambito della morale – di cui oggi non ci rendiamo più conto – è qualcosa di piuttosto recente. I diversi metodi contraccettivi si sono diffusi solo a partire dal secondo dopoguerra (la prima “pillola” è del 1950): prima di allora non esistevano soluzioni a portata di mano per evitare una gravidanza, i “metodi naturali” – peraltro studiati proprio per facilitare e non per evitare la fecondazione – sono stati sviluppati a loro volta a partire dalla metà degli anni Sessanta. Prima di allora per una coppia (e non parliamo di situazioni-limite, ma dell’ordinarietà) avere o meno figli era un evento che poteva certamente venir collocato nella forchetta tra il “desiderato” e l’“indesiderato”, ma al tempo stesso era ancora qualcosa che semplicemente accadeva o non accadeva a conseguenza di un rapporto, senza che fosse possibile scegliere in proposito. A meno, naturalmente, di decidere di non avere affatto rapporti, cosa a dire il vero un po’ singolare per due persone fresche della scelta di vivere assieme per la vita.
I figli, insomma, potevano arrivare così come potevano non arrivare. Si poteva provare ad averne molti, moltiplicando – per così dire – i tentativi. Ma non si poteva scegliere il contrario, cioè di avere molti rapporti evitando tuttavia sistematicamente di concepire dei figli.
Lì dove i figli sono una “possibilità che accada” e non una “scelta”, anche il contesto in cui si vive pesa in modo diverso. La generazione dei miei nonni ha messo al mondo quella dei miei genitori con i papà in partenza per la Russia, per l’Africa o il Montenegro. Non possiamo dire che le loro condizioni oggettive né le loro aspettative di futuro fossero più rosee e rassicuranti di quelle odierne. Per questo l’idea che il principale motivo per cui oggi si rinvia la generazione dei figli sia l’oggettiva precarietà del lavoro non coglie affatto il cuore della questione. Il contesto dei nostri nonni (come quello ancora oggi di molti Paesi o di molte famiglie che pur in povertà continuano a fare figli) non era più facile di quello odierno occidentale, ma era anzitutto vissuto diversamente, e questo proprio perché il mettere al mondo dei figli non era oggetto di scelta in senso assoluto. Come dire: siccome che arrivino o non arrivino non è in nostro potere deciderlo, quel che possiamo fare è semplicemente accoglierli con quello che c’è a disposizione. Non c’è spazio per porre il problema se sia o meno il momento “giusto”: in proposito non c’è una decisione da prendere, c’è solo una situazione nuova da affrontare.
Oggi invece, nel nostro contesto, mettere al mondo dei figli è diventato integralmente un fatto morale, proprio perché a differenza di solo mezzo secolo fa possiamo realmente decidere se farlo o meno nell’economia di una vita di coppia e percepiamo di conseguenza tutto il “peso” di questa scelta.
Sono cambiate le nostre possibilità tecniche, ma con loro è cambiata anche la nostra prospettiva sulla generatività, a dimostrazione del fatto che la tecnica non è mai neutra, ma anzi spesso istituisce dei “territori morali” lì dove prima non c’erano.
Questo nuovo territorio morale lo abbiamo fino ad oggi esplorato a tentoni, spesso riducendo tutto ad una questione di liceità o meno dei metodi contraccettivi, quali che fossero le posizioni, pro o contro. Iniziamo invece ad accorgerci che l’essere approdati ad una sessualità on demand, facile, e appunto sganciata dalla procreazione, è solo un lato della medaglia. Aver reso più light la relazione sessuale, liberandola dal “peso” della naturale e possibile generazione di nuova vita, ha sortito l'effetto collaterale di rendere più heavy proprio la generatività fisica: trasformandola in oggetto di scelta l’ha ricollocata integralmente nell’ambito della morale, caricandola di un alone di gravità sconosciuto in passato. Oggi avvertiamo cioè che devono esserci delle buone ragioni per fare figli, buone ragioni che eccedono l’aver scelto di vivere insieme stabilmente come coppia. Oggi gli inevitabili cambiamenti (gioie e fatiche) che comporta l’arrivo di un figlio o di una figlia possiamo scegliere se innescarli o meno. E dunque: ne saremo all’altezza? Dovremo rinunciare a molte cose, siamo sicuri di volerlo fare? Che futuro avranno questi bambini? Li mettiamo al mondo senza la certezza di poter provvedere a loro, con quello che costa oggi tutto il “mondo bebè”? Sono tutte domande che oggi affiorano e che non avrebbero avuto alcun senso fino alla generazione adulta dell’immediato dopoguerra.
Dire che occorrono delle buone ragioni per fare figli significa però anche dire che occorrono specularmente buone ragioni per non farne o per rinviare (sempre nella cornice di una vita di coppia): alle domande che abbozzavo sopra possono essere date risposte di segno diverso, ovviamente.
La campagna non poteva allora non creare disagio, e questo per il semplice fatto che ha provocato – involontariamente? Maldestramente? – a mettersi davanti alle ragioni di una libera scelta, e in particolare della libera scelta del rinvio.
Attenzione però: tutto questo significa anche che il “disagio” della campagna investe solo apparentemente chi incontra effettive difficoltà di ordine fisiologico, perché queste coppie hanno già la loro dolorosa buona ragione, ed è una buona ragione che precisamente revoca lo statuto di scelta alla mancata generatività che affligge la loro vita di coppia.
Le reazioni degli opinionisti che hanno denunciato una (presunta) offesa a chi si trova in difficoltà, non sono perciò lo specchio di una sensibilità verso le storie particolari più faticose: sono piuttosto lo specchio di una cultura che inaugura di continuo grazie alla tecnica nuovi territori morali, ma che poi fa fatica ad abitarli.
Questa fatica va colta e affrontata, possibilmente non mettendo la testa sotto la sabbia, protestando che il Ministero non deve permettersi di fare campagne morali ed eludendo così la questione. Anche senza la campagna del #fertilityday il problema rimane: ora che abbiamo trasformato la generatività fisica in una scelta, dobbiamo – con pazienza – imparare a portarne il peso e riguadagnare per via morale la coscienza rappacificata che mettere al mondo almeno uno o due figli è per lo più un’impresa sostenibile, e che c’è un tempo della vita quantomeno più favorevole per farlo.
Approda domani (25 luglio) alla Camera il dibattito sulla legalizzazione della cannabis. Le posizioni sono piuttosto note: da un lato chi sostiene che legalizzare significhi togliere potere al narcotraffico, controllare le sostanze in commercio, risparmiare forze di polizia, rimpinguare le casse dello Stato e destinare parte dei proventi alla spesa sociale; dall’altro chi evidenzia come questo genere di operazioni siano contraddittorie: si legittima di fatto la tossicodipendenza per avere risorse di gettito fiscale con cui prevenirla e combatterla. Perché questa contesa dovrebbe interessarci molto di più di quanto non stia facendo? Provo a spiegarne le ragioni in un post di analisi che, lo anticipo, non sarà “da ombrellone”.
Il titolo è pretenzioso, ma ogni tanto è importante esaminare alcune dinamiche basilari di tipo antropologico e sociale, per non abbandonarsi all’idea che l’assurdo domini la realtà.
Partiamo, come promesso, dalla questione della legalizzazione della cannabis, provando a muovere da un riscontro utile, offerto dall’esempio più recente di rimozione dell’illecito che abbiamo in Italia, e cioè il caso del gioco d’azzardo, “sdoganato” secondo gli stessi argomenti che oggi vengono riproposti per lo spinello.
I dati ad oggi dicono che le mafie non sono affatto arretrate, si sono riadattate velocemente al nuovo quadro. Gli introiti fiscali risultano risibili rispetto al volume di affari stimato: dal 2004 al 2012 il fisco ha recuperato una cifra pressoché stabile, attestata attorno agli 8 mld di Euro, solo che questa cifra nel 2004 rappresentava il 30% della movimentazione mentre nel 2012 poco più dell’8%, in costante calo. A fronte di questi 8 mld di Euro, la spesa sociale riferibile alle ludopatie si attesta attorno ai 6,6 mld di Euro. Questa forchetta (i dati che ho riportato si trovano ben riepilogati sul sito di Libera) negli ultimi anni si è ulteriormente ridotta, mandando questo sciagurato bilancio praticamente a pari.
Ma si tratta solo di economia?
Chi opera nel settore delle dipendenze ha ben presente la devastazione delle relazioni e della vita nel suo complesso che queste comportano. La sofferenza generata non si misura in Euro e non si risarcisce in Euro, questo dovremmo ricordarlo a noi stessi ogni mattina alzandoci dal letto. Questo volume di sofferenza non svanisce nel nulla: quando va bene è pazientemente rielaborato e assorbito in una trama fitta e attenta di nuove relazioni di cura. Quando va meno bene è semplicemente accantonato e sepolto sotto il tappeto. Quando va male esplode, in modo per lo più imprevedibile.
Non abbiamo alcun motivo fondato per ritenere che un processo di legalizzazione della cannabis segua una evoluzione diversa, dal momento che anche questa sostanza può dare dipendenza.
Perché allora ne stiamo discutendo?
Attenzione all’apparentemente innocente espressione che ho appena utilizzato: può dare dipendenza. Già, perché può anche non darla. Questo è il punto e questa è precisamente la crepa che oggi non sembriamo essere in grado di gestire nel discorso pubblico, su innumerevoli fronti: se non c’è una correlazione priva di scarti, se cioè c’è spazio per il “non è detto che…” tendiamo a fermarci immediatamente, non abbiamo più argomenti per sostenere con forza l’opportunità di non modificare il confine tra legale e illegale.
Osserviamo la questione più da vicino.
Che ci sia una correlazione tra una serie di pratiche (gioco d’azzardo, consumo di stupefacenti…) e la vita che si guasta seriamente è evidente per chi opera sul fronte della cura. Chi arriva a un SER.D ha sempre iniziato con un consumo non allarmante, di bassa soglia. Poi è successo qualcosa. Sono successe molte cose. E quando arriva la presa in carico sociale non c’è dubbio che la tal pratica ha avuto già effetti pesanti, da cui è molto difficile e faticoso riprendersi e liberarsi.
Spostiamo ora il punto di vista e adottiamo quello del consumatore che approccia la sostanza o una di queste pratiche. Possiamo pensare che sia disinformato sugli effetti? Non scherziamo. Il problema non è affatto l’informazione, e lo sappiamo benissimo. Nessun fumatore ha mai smesso di fumare perché lo hanno informato dei possibili esiti cancerogeni della nicotina. Il punto è che questi effetti, precisamente, sono possibili, non matematicamente certi. Guarda la nonna: fumava un pacchetto al giorno ed è morta a 90 anni, aveva solo un po’ di tosse ogni tanto. L’implacabile legge del non è detto che produce sempre in noi un effetto noto già a Platone e agli antichi: nel confronto diretto tra una gratificazione immediata e un possibile danno futuro, se non interviene altro dentro di noi, prevale l’attrazione per il piacere del momento.
Vorrei anzitutto allora evidenziare come cambino le cose a seconda che collochiamo la camera da presa in modo da offrire il punto di vista della comunità (che raccoglie i cocci) o quello dell’individuo (che si rapporta ai propri desideri).
La comunità che si fa carico privilegia lo sguardo ex post: qui la correlazione è infallibile, come osservavo sopra. Non può semplicemente esistere una persona che presenta una dipendenza da droghe che non abbia iniziato sperimentando occasionalmente una sostanza.
L’individuo che sperimenta privilegia invece lo sguardo ex ante: qui la correlazione è fallibile, e potremmo portare moltissimi esempi singolari, come quello della nonna incallita fumatrice (a cui, beninteso, immaginiamo somiglierà la nostra sorte di fumatori).
In senso puro, il cittadino proibizionista assume solo il punto di vista della comunità, l’antiproibizionista assume quello dell’individuo, ed entrambi sono sensati, come spero di aver mostrato fin qui.
La questione che allora sorge è questa: il legislatore quale prospettiva è tenuto quantomeno a privilegiare?
Prima di rispondere a questa domanda, vorrei fare osservare ancora qualcosa.
Come ci stiamo per lo più orientando oggi, nell’opinione pubblica occidentale, nelle discussioni sulla rimozione o istituzione di limiti di legge? Non è difficile notare, ad esempio, che tutto il dibattito sulle forme della genitorialità e della procreazione è alimentato da acque attinte al pozzo del non è detto che. Non è detto che una coppia omosessuale non possa crescere bene dei figli. Non è detto che una donna conduca una gravidanza per conto terzi solo per denaro. Non è detto che un figlio nato da fecondazione eterologa soffra del non avere accesso alla propria genealogia. Non è detto che dei bambini vengano educati bene perché i genitori sono un uomo e una donna. Non è detto che una donna per realizzarsi debba diventare madre. Tutto questo, lo ribadisco, è pienamente sensato, nulla di tutto ciò – ex ante – è detto. La forza persuasiva delle argomentazioni di Michela Marzano, per fare l’esempio di una persona combattiva e intelligente con cui ho potuto confrontarmi su alcuni di questi temi, si condensa a mio parere in larga parte sul potere del non è detto che, che è il potere della prospettiva che più amiamo, quella della prima persona.
Proviamo ora a considerare la cosa a rovescio, sempre per capire la preminenza che da cittadini attribuiamo alla prospettiva dell’individuo e all’argomento del non è detto che. Prendiamo l’esempio politico della Turchia e di quel che sta avvenendo. L’immensa repressione a cui stiamo assistendo ci indigna. Come è possibile mettere in stato di fermo migliaia di persone, sospendere dai propri incarichi professori, rettori di università, magistrati e forze dell’ordine o militari sulla base di sospetti legami con gli organizzatori del fallito golpe? Un cittadino potrebbe aver simpatizzato per qualche idea, ma non è detto che… Erdogan radicalizza l’altra prospettiva: i sovversivi (naturalmente rispetto all’assetto che lui rappresenta) autori del golpe hanno iniziato così, simpatizzando per certe idee. E se c’è qualche possibilità che quelle idee conducano ad azioni antigovernative e a disordini, allora tanto basta per bloccare e incarcerare.
Accetteremmo questo tipo di prospettiva?
Immagino di no. Teniamo questo no, e osserviamo un altro fronte.
In questo mese di luglio l’Europa è stata tragicamente segnata da diverse inaccettabili mattanze. Nizza e Monaco hanno riacceso il terrore del Bataclan e la memoria di altri eventi simili. Già, simili. Come vorremmo che le matrici fossero invece identiche, tutto sarebbe più semplice, l’azione preventiva potrebbe essere chirurgica e senza errori. L’uomo di Nizza – ho commentato la cosa in un altro post – ha avvicinato le idee dell’ISIS, ma al di là di questo era una persona depressa, alle prese con la separazione dalla moglie, segnato da una vita sessuale compulsiva e con altri tratti che condurrebbero ad una diagnosi di disagio multifattoriale. Ci indigniamo con le forze di intelligence perché è sfuggito ai controlli. Attenzione a quello che stiamo implicitamente facendo: qui stiamo assumendo senza remore la prospettiva della comunità ferita che osserva le connessioni ex post. Stiamo dicendo che – caspita! – con un profilo così doveva essere pedinato giorno e notte! Improvvisamente siamo pronti ad infischiarcene del fatto che qualcuno ci dica: «Guarda, non è detto che un depresso diventi violento; non è detto che una persona che affronta una crisi relazionale immagini gesti eclatanti ed efferati; non è detto che chi visita qualche sito pornografico o le immagini truci dell’ISIS poi compia azioni distruttrici». Improvvisamente al diavolo la privacy e via libera agli investimenti per intercettare il prima possibile scelte e comportamenti che potrebbero rivelarsi nocivi per se stessi ma anche per altri.
Ora, il consumo di cannabis rientra nelle medesime coordinate: comportamento che potrebbe rivelarsi nocivo per se stessi ma anche per altri.
Spero di essere riuscito, per quanto sapendo di dover condensare la riflessione, a evidenziare almeno tre cose: la prima è che noi tutti oscilliamo molto tra la prospettiva individuale ex ante – quella che ci fa dire “non è detto che” – e quella comunitaria ex post, che ci fa dire che tuttavia da certi mali possibili e probabili occorre in qualche modo proteggersi e proteggere.
La seconda è che culturalmente subiamo molto di più il fascino della prospettiva individuale e, anche per questo, nei dibattiti sui processi di legalizzazione degli illeciti, l’argomento “non è detto che” diventa particolarmente efficace e ci toglie lucidità di analisi.
La terza è che stiamo davvero rischiando una schizofrenia sociale e politica, dal momento che passiamo da una logica all’altra a seconda degli argomenti, senza renderci conto che si tratta esattamente dello stesso problema di fondo.
Riprendo ora la domanda di più sopra: il legislatore quale prospettiva è tenuto quantomeno a privilegiare?
Il legislatore non coincide con il cittadino che legittimamente – e affermando così un condivisibile antideterminismo nei percorsi esistenziali – pensa “non è detto che”; il legislatore, scriveva con acume Tommaso d'Aquino, è anzitutto un’istanza di «cura della comunità». D’altra parte in una democrazia occidentale non coincide neppure con una posizione di immobilismo e/o di pura repressione di ogni cambiamento in nome del “potrebbe accadere che”.
Le due prospettive sono chiamate a comporsi in qualche modo, perlomeno in una cultura che – pomposamente – potremmo chiamare dei “diritti umani”.
Questo significa che anche la ridefinizione di certe demarcazioni tra il lecito e l’illecito deve di volta in volta passare attraverso la comprensione della capacità dei cittadini di abitare con una certa sapienza proprio la zona d’ombra in cui “non è detto che” ma “potrebbe anche accadere che”.
Nel caso del gioco d’azzardo, da cui sono partito con questo post, abbiamo constatato che questa capacità fa significativamente difetto. Prima allora di aprire un altro capitolo molto probabilmente di altrettanto difficile e problematica gestione, la responsabilità del legislatore starebbe – a mio parere – nell’avviare piuttosto una riflessione e delle sperimentazioni per farsi carico precisamente di questo deficit di sapienza civile.
La sapienza civile a cui penso è fatta di capacità sociale di valorizzare quelle consapevolezze dolorose che maturano ex post, capacità che si traduce non anzitutto (pur se anche) nel reprimere, ma nel chiamare per nome e senza reticenze “bene” quel che effettivamente e per lo più fa bene, e “male” quel che effettivamente e per lo più fa male. Ed è fatta di capacità personale di stare più pacatamente di fronte ai propri desideri e alle proprie pressioni interiori, imparando – con l’aiuto di una comunità che educa e che non si sostituisce al singolo – a distinguere le diverse suggestioni e a fare la propria insostituibile parte di persone libere, misurandosi con le mille prospettive ambigue, discernendo e scegliendo le strade che effettivamente conducono agli esiti auspicati dal “non è detto che”.
La zona d’ombra che oggi fatichiamo a presidiare, quella in cui si decidono gli sviluppi delle libere scelte personali, non va certo invasa con inasprimenti legislativi (come chiediamo quando reagiamo immediatamente da comunità ferità) ma non per questo va lasciata all’improvvisazione, rinunciando a distinguere il bene dal male a partire dalle loro più tenui radici (come facciamo annacquando ogni differenza morale al grido di “non è detto che”). La zona d’ombra che ci mette oggi in difficoltà è propriamente un luogo antropologico, uno spazio dell’umano essenzialmente interiore in cui il personale e il sociale si intrecciano. Un tempo la chiamavamo “coscienza” e prima ancora “anima”: come ce ne stiamo prendendo cura?
Mi auguro che si possa ritornare a discutere più estesamente di tutto questo. Nel frattempo, quanto alla cannabis, ad oggi penso che non sia affatto una buona idea quella di smantellare quest’altra frontiera tra il lecito e l’illecito: certo, non è detto che chiunque ne sperimenterà il consumo svilupperà progressivamente una dipendenza da stupefacenti, tuttavia non trovo saggio giocare d’azzardo con la possibilità di introdurre nel nostro già teso tessuto sociale nuove storie personali di sofferenza e di disagio.
Dopo i fatti tragici di Nizza si rinfocola il dibattito sugli intrecci tra terrorismo, disagio e forme di radicalismo religioso. Questo dibattito chiede riflessioni che fatichiamo a sostenere per la loro complessità: il dolore dei colpiti è terribilmente semplice da comprendere, mentre le trame che trasformano gli uni o gli altri in efferati aggressori lo sono molto di meno. L’interrogativo “perché tutto questo?” può essere accostato in qualche modo?
La nostra reazione al male, a quel che fa male, è molto essenziale: cerchiamo di allontanarci. È così sul piano fisico, ma anche su quello morale: dal male inflitto ad altri tendiamo a dissociarci in molti modi, ora sostenendo che era in vista di un bene, ora dicendo che “non volevamo”. Con il male, insomma, non vogliamo avere a che fare.
I mali che fatichiamo a spiegarci – come quelli accaduti a Nizza e in precedenza altrove – attivano in noi la stessa dinamica: sentiamo l’urgenza di prenderne le distanze, dicendo anzitutto a noi stessi che noi non siamo così, che siamo di altra pasta. Noi siamo diversi. Il che potrebbe essere anche vero, ma come dimostrarlo? Questa dimostrazione è in effetti molto difficile. Se indaghiamo sui profili delle persone che compiono materialmente gesti così efferati scopriamo che questa diversità non è affatto così lampante.
L’uomo di Nizza era una persona che soffriva di depressione, facile alla collera, alle prese con la separazione dalla moglie, catturato nelle maglie di una sessualità compulsiva, violento ma insieme anche ligio nel rispettare l’obbligo di firma settimanale dovuto ad un precedente arresto per lite.
Non occorre avere precedenti penali per essersi sentiti delusi e senza speranza, per provare la frustrazione del non riuscire a recuperare una relazione, per pensare di essere il bersaglio di una sorte assurdamente avversa, per rifugiarsi in qualche forma distorta di consolazione a buon mercato. Tutti attraversiamo nella vita passaggi di questo tipo, ma sapremmo dire che cosa impedisce che l'una e/o l'altra di queste esperienze si radicalizzino fino a corrodere ogni buona qualità umana, fatta salvo la lucidità che occorre per progettare gesti così scientificamente intrisi di male?
Dobbiamo provare a rispondere a questa domanda se non vogliamo essere superficiali.
Dobbiamo provare a mettere a fuoco dove si radichi quella diversità che, colti dall'orrore, ci sentiamo di dichiarare a noi stessi e al mondo.
Esiste naturalmente una risposta semplicistica, e anche in questo caso qualcuno l’ha tentata: l'uomo era un integralista islamico. Come se due settimane di indottrinamento intensivo (così le notizie ad oggi) bastassero a spiegare un gesto. È una risposta che non spiega ma - questo è il punto - illusoriamente rassicura, perché se noi non siamo islamici, e se basta un tratto identitario-culturale a spiegare la violenza, allora è chiaro che in noi, non essendo islamici, quel male non attecchirà. Così possiamo andare avanti senza preoccuparci troppo di noi stessi e concentrandoci piuttosto nel chiedere alle autorità maggiori sforzi in fatto di sicurezza. Sicurezza che sotto sotto coinciderà con una richiesta di allontanamento di quelli – e non siamo noi! – culturalmente, religiosamente o ideologicamente capaci di ogni efferatezza.
Se invece vogliamo prendere la cosa più seriamente non c’è altra via se non quella di sostare davanti alla domanda provocatoria: che cosa ci farà personalmente diversi se mai anche per noi arriverà il tempo della fatica, della depressione, del tradimento, dell'impoverimento, della frustrazione dei desideri, della cattiva sorte? Che cosa ci consentirà di elaborare diversamente la rabbia, di non abbandonarci alla violenza, di coltivare ancora speranza e di non isolarci nella disperazione?
Le trame profonde che trasformano giorno dopo giorno in aggressori sono il rovescio di quelle che trasformano - sempre day-by-day - in uomini e donne di pace: non sono semplici né immediate le prime così come non lo sono le seconde. Non riusciremo a comprendere e contrastare meglio le prime se non acquisiremo maggiore consapevolezza delle seconde.
Il male – come ricorda l’antica saggezza del libro della Genesi (4,7) – è accovacciato alla porta di ciascuno, imparare a dominarlo in se stessi è un'impresa anzitutto personale, un fatto di continua formazione e di cura interiore. Pensarsi culturalmente immuni dalla tentazione della violenza distruttrice (e con questo dispensati da qualsiasi fatica introspettiva) è una grande illusione, da cui dovremmo iniziare a guardarci con maggiore consapevolezza. E, forse, dovremmo anche iniziare a considerare che proprio l'analfabetismo spirituale rischia di essere la grande fragilità ignorata della società occidentale.
Le questioni che sorgono a proposito dei modi di abitare le piazze digitali non sono diverse da quelle che tradizionalmente emergono nelle relazioni dal vivo, a riprova del fatto che la dimensione digitale non è affatto una dimensione alternativa. In un post recente Riccardo Scandellari (@Skande) ha proposto spunti utili a proposito della spontaneità, intercettando alcuni interrogativi piuttosto diffusi: è meglio esprimersi senza filtro oppure rileggere e censurare attentamente quel che uscirebbe di getto dalla nostra tastiera? Se però iniziamo a filtrare, a controllare, non è che perdiamo in autenticità? Non c’è il rischio che l’identità o il profilo che socializziamo comunicando siano in qualche modo artefatti? Provo a riprendere alcune chiavi di lettura che possono aiutare a uscire da questo – falso, lo anticipo subito – dilemma antropologico.
Il nostro dilemma si regge implicitamente su un’equazione psicologicamente corretta: «spontaneità = dire/scrivere quello che si pensa». In ambito morale si direbbe: spontaneità = agire secondo quel che si è. È una dinamica nota e studiata fin dall’antichità: ne hanno parlato Platone e Aristotele ragionando delle virtù e i latini parlando degli habitus, cioè di quelle strutture di profondità della nostra personalità che sono il frutto della ripetizione – habitus, abitudine appunto – e che si attivano costantemente a sostegno della vita ordinaria.
L’abitudine è il frutto di un “allenamento” quotidiano e matura proprio nel ripetersi delle piccole manovre di ogni giorno: ci sono modi di dire, di pensare, di fare e anche di scrivere che pian piano acquistano stabilità nelle nostre vite. Sono, non a caso, tratti che ci caratterizzano e che rappresentano la nostra via migliore per affrontare certe situazioni: il come al solito è il modo più economico di affrontare le cose.
Quando ci affidiamo alle nostre abitudini è un po’ come se seguissimo dei “protocolli” personali collaudati, degli “schemi operativi” su cui inizialmente abbiamo riflettuto, che abbiamo applicato prima con attenzione e poi via via con sempre maggiore dimestichezza e minor riflessione. Una volta diventati abitudinari, questi “schemi” non hanno più bisogno di essere pensati nel momento in cui li attiviamo, a meno di non incontrare qualche ostacolo che spezza la routine e ci costringe nuovamente a riflettere, a considerare qualche alternativa. La spontaneità non è altro che questo: agire secondo questi “schemi”, che sono ormai poco dispendiosi e che non hanno bisogno di essere ripensati passo dopo passo nel mentre della loro esecuzione. Quindi – ma questo è solo un primo aspetto – la spontaneità è effettivamente il riflesso più affidabile della nostra personalità, di quello che realmente abbiamo fatto di noi stessi nel tempo.
Spontaneità, in questo senso, è sinonimo autenticità.
Detto questo occorre fare attenzione ad una seconda versione dell’equazione da cui siamo partiti, che è questa: «spontaneità = dire/scrivere quello che si pensa sul momento».
Questa seconda equazione associa alla spontaneità, cioè al riflesso autentico di quel che siamo, l’immediatezza ("sul momento"): questa associazione è corretta nel campo dell’azione, ma appunto solo lì dove non stiamo riflettendo su quel che facciamo, dove agiamo per routine. Non è invece corretta nel campo del pensiero e della parola che lo esprime. Non ogni cosa che ci passa per la testa sul momento è espressione autentica di noi stessi. Prova ne sia il fatto che spesso ci pentiamo delle parole che escono dalla nostra bocca in circostanze inusuali o di quelle che in preda all’ira o all’eccitazione digitiamo in un SMS o in una mail premendo immediatamente “invio”. Ci pentiamo di averle diffuse precisamente perché ci accorgiamo che sono sì espressione di quel preciso istante, ma in effetti non ci appartengono realmente, non sono un buon riflesso di quel che siamo abitualmente. Tant’è che usiamo talvolta un’espressione significativa, dicendo (a noi o agli altri): «Non so cosa mi ha preso». E il punto è proprio questo: quel che ci passa per la testa non è automaticamente un riflesso di quel che siamo. Può esserlo, ma può anche essere qualcosa di estraneo alla nostra identità più profonda.
Nel parlare e nello scrivere possiamo cioè essere immediati ma allo stesso tempo inautentici. A meno naturalmente di non concepire la nostra identità come la semplice collezione di tutti i pensieri che in qualsiasi momento ci passano per la testa.
Il pensiero espresso in parola, e a maggior ragione quello affidato alla scrittura, può allora essere di due tipi: filtrato o non filtrato. Il più autentico dei due – se riteniamo importante che la parola trasmetta qualcosa di noi in modo affidabile – è quello filtrato, quello cioè che rimane dopo aver setacciato con un minimo di cura le reazioni estemporanee, quello in grado di trasmettere all’interlocutore o al lettore un punto di vista che è effettivamente espressione di un’esperienza rimeditata, della nostra storia, della prospettiva globale da cui guardiamo e interpretiamo le cose.
@Skade osservava giustamente che «molti si barricano dietro la spontaneità per giustificare uscite poco felici o esternazioni scostanti e si discolpano dicendo “sono fatto così, dico quello che penso, sono spontaneo”». E ha ha perfettamente ragione nel proseguire dicendo che «se ‘spontaneità’ significa scollegare il cervello e lasciarsi andare, allora credo sia meglio controllarsi col rischio di apparire calcolati». Dal punto di vista che ho cercato di ricostruire, ha ragione e aggiungerei che questo “essere calcolati” non è affatto sinonimo di inautenticità: filtrare il proprio pensiero – che non significa falsificarlo o essere camaleontici (questa è tutt’altra cosa, è una inautenticità di tipo etico) – è invece un atto di rispetto per se stessi e insieme per gli altri, un segno di attenzione e di cura verso le relazioni, che di tutto hanno bisogno fuorché di parole gettate con superficialità fuori di sé, solo perché un pensiero qualunque è passato al momento per la testa.
Quante volte ci lamentiamo del rumore, del caos e insieme di quel continuo correre che ci impediscono di sostare più umanamente davanti agli eventi che ci colpiscono, ci interpellano o chiedono di compiere delle scelte? Quante volte abbiamo l’impressione di essere a bordo di una macchina infernale, lanciata ad altissima velocità lungo un percorso che somiglia a tutto fuorché ad un’autostrada a tre corsie poco trafficata e di non avere il tempo per occuparci della rotta, perché la manutenzione del veicolo assorbe già tutte le energie? Nella frenesia della società contemporanea crescono le persone che confessano, con un misto di amarezza e rassegnazione, di essersi dovute occupare a lungo di “priorità meno importanti”, senza riuscire a trovare tempi e modi per rallentare e dedicare attenzione ad alcuni snodi decisivi nella vita. C’è, potremmo dire, un’attesa di raccoglimento e cambiamento che prima o poi si fa pressante in tutti, e il silenzio è quella dimensione di spazio-tempo che si candida ad ospitare il primo e favorire il secondo. Può accadere però che quando finalmente riusciamo ad aprire questa sorta di parentesi, l’esperienza che viviamo abbia ben poco a che fare con quella immagine di serenità, di rilassata e agevole concentrazione con cui spesso ci autorappresentiamo il silenzio. Cercavamo l’oasi pacifica del raccoglimento e abbiamo trovato il vociare caotico della dispersione. Siamo forse entrati nella dimensione sbagliata?
Se il tempo del raccoglimento – al #YouTopicFest o altrove – guidato dalla traccia che avevo proposto (vedi) è stato contrassegnato da diverse distrazioni, da un’attenzione che faticava a posarsi da qualche parte, dal vagare sconclusionato ragionando dei proverbiali “massimi sistemi”, dall’emergere di pensieri assillanti sulle cose da fare che attendono, dal riaffiorare di più antiche preoccupazioni o delusioni, allora tutto bene: significa essere entrati nella dimensione reale del silenzio. Sgombriamo almeno una prima illusione: quella che associa troppo frettolosamente il silenzio al relax. Ci vogliono entrambi nella vita, ma sono due cose diverse, due modi diversi di rallentare il ritmo di esistenze spesso troppo affollate di “vedo gente, faccio cose”. Il silenzio è primariamente zona di conflitto, in cui non sono esclusi momenti di tregua in cui tutto si placa, ma certamente non sono quel che contrassegna gli esordi del raccoglimento.
Ogni conflitto, come ben sanno a Rondine, è connotato anzitutto da molto caos: ci sono delle “parti” in causa, ciascuna chiede parola, rivendica le proprie pretese, prova a sovrastare le altre voci, a contestarne gli argomenti o semplicemente a sviare il discorso se vede che l’insistenza su un certo punto indebolisce la propria posizione. Basta osservare le dinamiche di un qualunque talk-show televisivo per evidenziare questi ingredienti primordiali, che in effetti si ritrovano anche nella dimensione interiore proprio quando ci si introduce nell’esperienza del silenzio. Come osservavo sopra, una gran varietà di pensieri inizia a farsi presente, spesso senza ordine ma sempre generando quell’impressione poco confortevole di essersi affacciati su qualcosa di troppo movimentato, di inafferrabile, di indiscernibile.
La prima esigenza diventa allora quella di porre un argine al caos.
Proprio come in un talk-show occorre fare in modo che tutte le voci – che inizialmente si accavallano – si raccolgano attorno ad un tema più preciso, perché questo è l’unico modo per far sì che i parlanti e le rispettive posizioni emergano più chiaramente, diventando così meglio distinguibili e riconoscibili. Si tratta cioè di passare dal caos al colloquio, ad un’interazione meno sconclusionata tra le diverse parti che prendono parola e che, interiormente, si esprimono appunto nei diversi pensieri che sviluppiamo.
Nel silenzio personale non abbiamo a disposizione un “conduttore”, ma possiamo affidare questo compito di primo riordino a qualche strumento essenziale, che ci offra spunti di riflessione e compiti piuttosto precisi. Nella scheda che avevo proposto, e che qualcuno potrebbe aver utilizzato, erano allora presenti un piccolo racconto e tre diversi interrogativi su cui soffermarsi in sequenza, provando a prendere qualche appunto sull’andamento dell’esercizio. Ecco alcuni spunti per valorizzare l’esperienza fatta (con i diversi passi proposti) e per rileggere eventuali annotazioni.
La prima difficoltà che si può incontrare riguarda la concentrazione. Alle volte il tempo di silenzio trascorre senza che neppure riusciamo ad entrare nell’esercizio che ci viene affidato. Già nel leggere il racconto potremmo aver constatato che l’attenzione veniva continuamente catturata da altre cose, da stimoli ambientali che provenivano dal luogo fisico in cui abbiamo scelto di sostare. Se per tutto il tempo dell’esercizio la nostra attenzione si è spostata dal racconto alle cose che vedevamo o ascoltavamo o percepivamo, possiamo quantomeno capire che il silenzio chiede anche una minima selezione di luogo. Non possiamo pensare di raccoglierci rimanendo accanto a persone che conversano tra loro o davanti a un paesaggio che cambia continuamente né a fianco della cucina da cui arrivano i profumi della cena… Una prima consapevolezza che l’esercizio può portarci riguarda allora l’importanza del luogo e della continua interazione tra ambiente esteriore e interiore.
Se siamo riusciti a entrare nell’esercizio, il secondo tipo di difficoltà che potremmo aver incontrato consiste nel rispettare il mandato e nel rimanere “in tema”. Quando finalmente riusciamo a “filtrare” gli stimoli ambientali è allora che entriamo nella dimensione vera e propria del silenzio, ovvero dell’ascolto di quel che si muove dentro di noi. L’esercizio, invitandoci a concentrare l’attenzione su un “tema”, mette alla prova la nostra capacità di filtrare i pensieri: c’è qualcosa che c’entra con l’esercizio e qualcosa che non c’entra. C’entra ogni pensiero che sviluppa l’eco del racconto, non c’entra ogni pensiero che ci disperde altrove, che ci manda “fuori tema”. È utile osservare quanto ci vuole perché ci accorgiamo di essere finiti lontano dal compito e se siamo in grado di distinguere i pensieri che dis-traggono da quelli che viceversa con-centrano.
Per inoltrarsi in profondità l’esercizio proponeva di passare dalla considerazione dei possibili significati astratti del brano a quella degli spunti interessanti per la propria vita. Cerchiamo il silenzio di raccoglimento non per studiare meglio un certo argomento, ma perché avvertiamo il bisogno di riordinare qualcosa in noi stessi, di cambiare in meglio qualcosa che ci riguarda. Se allora il racconto ci ha inizialmente aiutato a mettere a fuoco qualcosa di interessante, il passo successivo consiste sempre nel chiedersi in che modo la cosa ci riguardi e ci interpelli. Potremmo ora imbatterci in un nuovo tipo di distrazione, che consiste non più nell’indurci a vagare totalmente altrove, ma a rimanere a distanza di sicurezza dal chiederci come quel pensiero impatti sulla nostra vita, sulle nostre scelte. Si è fatta avanti una meditazione sull’importanza del raccoglimento? Ecco che ci troviamo a considerare quanto questa cosa farebbe bene a Tizio o a Caio. Il successo della distrazione consiste qui nel circoscrivere il frutto del nostro raccoglimento in dei bei pensieri, lontani dal nutrire realmente quel desiderio di revisione di vita che ci ha spinti a cercare il silenzio.
L’ultimo passaggio dell’esercizio – molto difficile arrivarci le prime volte o se il tempo è molto ridotto – invitava a vedere se nel colloquio interiore iniziasse ad emergere qualche proposito: un’idea anche semplice, ispirata dalla meditazione, che suggerisse qualcosa di concreto da poter fare proprio per sviluppare le esigenze di spiritualità e di revisione di sé della vita adulta. Può accadere cioè di essere finalmente sollecitati da pensieri che invitano a scelte piccole, compatibili con la vita ordinaria, non eroiche eppure allo stesso tempo impegnative, sfidanti, avvincenti, concretamente alternative rispetto a modi di fare abituali che avvertiamo essere di scarso valore o in qualche modo impastati di male. Può trattarsi del proposito di iniziare la lettura di un certo libro al posto della solita accoppiata divano-tv, dell’idea di dedicare qualche minuto alla sera per rivedere l’andamento della giornata, del pensiero quella di ridurre il consumo di qualcosa che sta diventando troppo centrale nelle nostre giornate o magari di quello di metterci a disposizione per quel tal servizio per cui non ci siamo mai decisi… Il silenzio è l’unico contesto in cui, ad una certa profondità, possono prendere parola in noi le voci che invitano a quei cambiamenti che qualificano in vario modo la nostra umanità. I pensieri concreti che spingono in questa direzione hanno a loro volta degli oppositori tipici. La distrazione qui ha poco potere, perché il raccoglimento ha dato ormai il suo frutto, conducendoci a considerare i modi pratici attraverso cui riformare qualche aspetto del nostro vivere. Possono invece sorgere invece voci di scoraggiamento, che iniziano a rappresentare il proposito messo a fuoco come irrealizzabile o come inutile. Ho provato già tante volte a cambiare, ma non ce l’ho mai fatta… In fondo le cose vanno bene così, perché complicarsi la vita? Comunque lo so che anche se inizio poi non dura…
Possiamo allora notare che le forme della distrazione, via via che scendiamo in profondità, si adattano alla “quota” a cui ci attestiamo: ad ogni livello di ingaggio – e le tre domande cercano di rappresentare almeno i passaggi più tipici – accade di misurarsi con stimoli o pensieri che tendono a sterilizzare il raccoglimento e a contrarre la mobilità interiore, cioè la disponibilità alla revisione di sé.
Imparare a riconoscere le forme della distrazione significa prendere confidenza con il conflitto interiore: affrontare il silenzio – breve o lungo che sia – e scoprirsi in qualche modo distratti, non vuol dire allora aver sprecato del tempo o fallito un compito. Al contrario significa aver iniziato ad ingaggiare la lotta interiore e aver preso – o ripreso – contatto con la possibilità concreta di cambiare qualcosa in se stessi, indirizzandosi verso il meglio.