QUEL LEGAME MISTERIOSO E GRANDIOSO

La notizia sta girando il mondo. Il bimbo affetto da sindrome di down rifiutato dalla coppia australiana – possiamo parlare di “genitori”? – e accolto dalla donna – possiamo parlare di “madre”? – che lo ha portato in grembo per nove mesi, per vivere avrà bisogno di una operazione al cuore. Si è attivata subito la solidarietà internazionale e, forse, tutto questo contribuirà a salvare una vita. È da questa gara di solidarietà che vorrei partire per qualche considerazione.

Accade sempre più spesso che attorno ai “casi” particolarmente inusuali o agli eventi straordinari si attivi un movimento di attenzione concreta. Succede nel caso di grandi catastrofi ambientali o nel caso di storie individuali che balzano agli onori della cronaca. Conflitti di lungo periodo, carneficine come quelle di Gaza o storie vicine di ordinaria povertà non sollecitano la stessa partecipazione. Questa dinamica, già nel XIII Secolo, faceva dire a Tommaso d’Aquino che «è più lodevole un’azione caritatevole compiuta per scelta che non una compiuta sotto l’impulso di un sentimento di misericordia» (Summa Theologiae, I-II, q. 24, a. 3, ad 1): non perché il bene compiuto nel trasporto emotivo – anche a favore di uno solo – abbia in sé un valore diverso, ma perché quel che facciamo sull’onda della commozione non si direbbe lasciare in noi una traccia significativa. Trasformare un gesto straordinario di prossimità in un impegno – la scelta – di lungo periodo ed in una attenzione permanente, in una nuova coscienza, è la vera sfida alla nostra umanità, intimamente buona ma incostante e volubile.

Il caso di Gammy che cosa lascerà in noi? Genererà una qualche consapevolezza più solida e duratura in noi che, mentre ci commuoviamo per Gammy, non possiamo non meditare sulla cornice in cui la sua vicenda ha trovato posto?

Forse ci voleva l’esito assurdo di un figlio commissionato e rifiutato perché difettoso, di una sorella presa e di un fratello lasciato, di una figlia consegnata per denaro (che poi inutile dire che la povertà non c’entra…) e di un figlio accolto senza badare a spese, per riuscire a vedere la forza di quel misterioso e grandioso legame che si intesse in nove mesi tra una donna e quel che porta in grembo, facendo venire alla luce – contemporaneamente – una madre e un figlio, una madre e una figlia.

Possiamo permetterci di pasticciare anche con questo legame?

Possiamo permetterci di entrare in una dinamica per cui dopo nove mesi, al momento della nascita-consegna, nasceranno dei figli e moriranno delle madri?

Ci sono ferite che troppo spesso sottovalutiamo, solo perché pensiamo che siano eventuali, monetariamente risarcibili e – comunque – un affare privato. Come mostra il nostro stesso impulso a farci prossimi di Gammy e della mamma che lo ha accolto, non esistono ferite dei singoli senza impatto sulla società, ferite personali che non lancino il loro appello alle reti di solidarietà, che non chiedano di mettere in campo risorse in più. Risorse – non solo economiche, spesso tutt’altro che economiche – per lenire, per curare, per guarire fin dove possibile.

Non credo sia una mentalità démodé quella che mi fa dire che faremmo bene a fermarci prima di imbarcarci in questo assurdo esperimento sociale che è l’“utero in affitto” (fosse anche un “utero in omaggio").

Terminata, speriamo con buon successo, la gara di solidarietà ed esaurito l’«impulso del sentimento di misericordia» proviamo a fermarci. Non ci vorrà molto, consultando ciascuno se stesso, a considerare che quel che è certo è che con Gammy una donna è diventata (una volta ancora) una madre, mentre rimane difficile dire che gli acquirenti siano diventanti genitori.