SE LA VITA È APPESA A UN FILO

Lo diciamo spesso: una via di arrampicata finisce quando rientri a valle, alla partenza, non quando sei arrivato in cima. Per le nostre due cordate era già arrivato questo momento, con i suoi piccoli riti: la rivisitazione dei passaggi chiave, una birra fresca, i propositi per qualche prossima salita… Sulla strada a pochi passi sfreccia improvvisamente una camionetta della Guardia di Finanza. Ci guardiamo. Il pensiero dei nostri sguardi è confermato subito dopo dal rumore inconfondibile del “papero”. Alcuni di noi chiamano così l’elicottero del Soccorso Alpino, per via di quel colore giallo inconfondibile, che quando alzi gli occhi al cielo e lo vedi, sai già che non si tratta di una gita di qualche facoltoso turista. E, come tutti, anche noi cominciamo a seguire il volo, con dentro quel turbinio di sensazioni che non possiamo mettere a tacere. Perché anche se siamo fuori zona, il distintivo del Soccorso Alpino che ci portiamo cucito addosso diventa immancabilmente rovente.

Il papero punta subito la parete, a pochi metri di distanza dalla via per cui siamo saliti qualche ora prima: c’è una ferrata che sale, l’ipotesi è che sia successo qualcosa lì. Un primo giro e poi riprende quota. Si sposta, il pilota punta tutto a destra, a perlustrare un’altra zona: ancora niente, di nuovo sale di quota. Il più forte delle nostre due cordate è uno dei capistazione storici del Soccorso Alpino della delegazione a cui apparteniamo. Da Tecnico di Elisoccorso ne ha fatti tanti di interventi. È lui che dà voce al nervosismo del collega che è al lavoro sul papero: il terzo giro segnala che l’indicazione della zona dell’incidente non è precisa, occorre mettersi a cercare lungo uno spicchio di parete che, ad occhio, farà 1500 metri quadri di superficie. Una parete super trafficata – è la prima giornata piena di sole di agosto, gli alpinisti sono usciti tutti come lucertole – quindi piena di cordate. Gente che, come quelli a valle, si ferma quando sente l’elicottero. Qualche decina di minuscoli puntini colorati fermi in parete. Fermo chi guarda prima di proseguire, fermo chi è infortunato e non può andare avanti. Occorre avvicinarsi. E anche qui, la frustrazione per l’inesperienza di tanti che salgono da domenicali: che quando si avvicina l’elicottero si sbracciano per salutare o per fare con le mani segno di no. Che, caspita, esistono delle posizioni di comunicazione codificate per dare istruzioni a chi è in volo: due braccia alzate, a posizione Y (yes) per dire «Sì, abbiamo bisogno di aiuto», una alzata e una abbassata, a posizione \ (la barra della N, no) a segnalare che è tutto a posto. Frustrazione perché sei sul posto dell’incidente, i minuti sono preziosi, chi ha chiesto aiuto è lì, ti vede girare e si chiede come fare per attirare l’attenzione. Ci vogliono nervi saldi per gestire questi momenti, perché è il Tecnico del Soccorso Alpino che dice al pilota dove dirigersi: l’ansia lassù è un nemico da tenere risolutamente alla porta.

Finalmente l’elicottero si ferma, immobile in aria. La manovra è chirurgica: da un’altezza che può essere di qualche decina di metri il Tecnico si cala appeso al verricello. Ci può essere vento in parete, c’è l’aria spostata dal rotore. Ma occorre arrivare accanto alla persona. Millimetrici. Millimetrici e rapidi: svincolare il ferito dalla parete, legarlo al sistema di aggancio su cui è già appeso il soccorritore e subito via.

Da sotto seguiamo la manovra: il papero si rimette in movimento e mentre si allontana dalla parete il verricello inizia a recuperare, finché il Tecnico e l’infortunato sono dentro. Tocca adesso al medico di bordo: di solito, appena possibile, una rapida sosta a terra per preparare il trasbordo verso l’ospedale. L’apprensione per le condizioni del ferito rimane, ma la tensione si scioglie, così come i capannelli di persone che da valle hanno seguito la manovra.

La nostra giornata prevedeva di fermarsi poi a riflettere sulla montagna, sui suoi significati, sulle suggestioni che regala per ripensare la vita. È un piccolo lavoro che abbiamo avviato.

A distanza di qualche giorno, rivedendo le immagini del papero in volo, non ho potuto fare a meno di pensare che davvero alle volte la vita è appesa a un filo. Alle volte non puoi fare altro che chiedere aiuto e attendere. Alle volte questa attesa è snervante, perché sembra che nessuno raccolga il tuo grido. Se però ad un certo punto arrivano delle mani che ti sollevano, che ti portano al sicuro, che inaugurano una piccola staffetta che si prende cura di te, allora – poi, quando ritorni a camminare – può capitarti di ricordare con intensa gratitudine quei momenti, quelle mani.

Può persino capitarti di pensare che quando la terra ti rivela tutta la tua precarietà, quello è proprio il momento in cui ti è dato di sperimentare che la salvezza, in fondo, arriva sempre dal cielo.