IL SENNO (PER QUELLI) DI POI

«Non possiamo permettere che il tecnico e l'etnico possano presentarsi come alternative all’etico». Ancora una volta Luigi Alici ha trovato il modo per rappresentare in estrema sintesi la radice del collasso della convivenza pacifica che attraversa il nostro tempo. L’analisi che propone su Dialogando fa riflettere sulle derive convergenti del mondo occidente e del mondo islamico nel porre la questione della salvezza della vita e dei modi per conseguirla: il primo sta perdendo spessore etico affidandosi al potere della tecnica, il secondo lo sta compromettendo nel nome di un legame viscerale alla terra, della appartenenza tribale, dell’esclusione dell’alterità. «Sembra – osserva Alici – che l'umanità stia smarrendo quella linea di divisione - elementare e originale - fra bene e male, a partire dalla quale si è accesa una luce di civiltà che ha segnato il passaggio dalla preistoria alla storia». Ma che ne è, oggi, di questa linea di divisione?

Uno tra i più antichi testi cristiani, la Didaché, si apre con queste parole: «Due sono le vie, una della vita e una della morte; e grande è la differenza tra di esse» (I,1). Nella riflessione delle prime comunità c’era un’idea interessante: la differenza tra il bene e il male non si può comprendere e tematizzare se non rendendosi anzitutto conto che si tratta di una derivata della differenza tra la vita e la morte. La via della morte è consumazione, perdita di sé, dissoluzione nel frammento, rottura di relazioni. Viceversa la via della vita è fioritura, concentrazione, unificazione interiore, generazione di relazioni. Questi sono i tratti che gli antichi riconoscevano alle due vie: siamo, evidentemente, al di là del semplice aspetto biologico.

Da nessuna parte ed in nessuna tradizione troveremo poi l’idea che la via della vita sia priva di fatiche: felicità non fa rima con facilità.

La dimensione etica ha a che vedere con questa rima mancata.

La via facile – la “porta larga” evangelica, attraverso cui si può transitare distrattamente, senza abbassarsi, senza scomporsi, senza rivedere qualcosa nell’assetto del proprio carico – contrassegna i percorsi da cui guardarsi: si tratta di strade lungo cui la persona si trova inizialmente comoda, cessa di lavorare su di sé, immagina di non dover cambiare nulla e così pian piano si stordisce in una forma di ripetizione sempre più stanca di atteggiamenti e pensieri. Le ribellioni episodiche a questa vita spenta – il diversivo, la trasgressione, la distrazione – non fanno altro che acuire quel senso di vacuità, a cui l’animo fiaccato dalla facilità non riesce a reagire in modo più risoluto. È dunque solo con il passare del tempo che la persona scopre gli effetti collaterali debilitanti della facilità, accorgendosi di essersi consegnata alla consumazione della morte, mentre il desiderio la proiettava verso la vita.

Il male in senso etico nasce spesso da questo vicolo cieco, dal tentativo di riappropriarsi della vita sottraendola senza remore a quel che sta attorno, togliendola a quel che è più a portata di mano, consumando le risorse dei più fragili e deboli (perché, ancora una volta, è più facile che non cambiare qualcosa di sé).

Non è poi un caso se, entrati in questa logica di rapina, agiamo ora nascondendo la mano, ora costruendo un’ideologia a giustificazione della malvagità.

Il tecnico e l’etico, nel loro volto distorsivo, stanno entrambi su questo asse di consumo rapace, in cui prende volto il male: quando nel nome del progresso tecnico rottamiamo le questioni di senso è sintomo che il nostro andare si è ben inoltrato lungo la via larga: chiudere gli occhi è più facile. Lo stesso accade quando nel nome della purezza e della sua conservazione espelliamo l’impuro e il diverso dal nostro territorio: anche questo è un modo per accaparrarsi risorse sottraendole ad altri, un modo di cercare (illusoriamente) vita seminando morte.

Gli antichi avevano capito che quella linea di divisione tra il bene e il male e tra la vita e la morte è sì elementare ed originale, ma non immediatamente evidente. Per questo ritenevano di doverne parlare, di dover tramandare un insegnamento in proposito. Quella linea, da soli, la riconosciamo per lo più con il ben noto “senno di poi”, quando ci fermiamo a considerare i frutti delle diverse semine, gli esiti dei diversi percorsi. E non sempre c’è modo e tempo per ricominciare.

La riflessione etica che le diverse tradizioni ci consegnano vuole – in fondo – donarci questo tempo. La saggezza di chi ci precede, la coscienza faticosamente conquistata dalle generazioni che prima di noi si sono confrontate con la ricerca della vita, è una forma corale del “senno di poi”. È – potremmo quasi dire – un “senno per quelli di poi”, per noi che veniamo dopo, perché di generazione in generazione si possa guadagnare più prontamente quell’«elementare linea di divisione».

E forse ha ragione Luigi Alici: la cosa più stolta che possiamo fare è gettare questo senno nelle fosse, mentre al contrario, per cambiare noi stessi mentre siamo in forze e accogliere la sfida della porta stretta, avemmo bisogno di rinnovare potentemente la comprensione della «grande differenza» tra il bene e il male, tra la vita e la morte.