LA DOTTRINA E I PICCHIATORI. SU FAMIGLIA E LEGGE NATURALE

Grazie al Sinodo sulla famiglia sta prendendo forma nella Chiesa cattolica un dibattito forse non troppo marginale sulla “dottrina”. A molti questa parola ricorda i tempi del catechismo a pioggia, quando si “andava a dottrina” proprio come si andava a scuola, per apprendere cose – più o meno interessanti – che non si imparavano altrimenti, o che era in fondo più semplice che insegnasse il prete, perché (insieme a siòr maestro e a siòr dotor) era uno che comunque aveva studiato un po’ più degli altri. Dell’aria di questi tempi è rimasto oggi molto poco, ma sicuramente sopravvive un’idea che si è radicata a fondo: la dottrina è qualcosa di estraneo a quel che la vita porge da sé. Occorre perciò “inculcarla”, quasi pigiandola a viva forza perché entri in un contenitore angusto – la nostra testa anzitutto – che, di suo, non ne vuol proprio sapere. Vorrei sostare sull’inconsistenza di questo “principio di estraneità” tra dottrina e vita, almeno per quel che riguarda i fondamentali degli assi relazionali che incrociano sulla famiglia. Perché credo che amplifichi timori infondati, specialmente in chi ha un po’ troppa nostalgia per i tempi in cui tutti passavano per la parrocchia.

Certamente per i cristiani la dottrina abbraccia molte cose, tra cui i dogmi, piccoli scrigni di grande mistero con cui continuamente dialoga la fede personale: la Trinità di Dio, l’incarnazione di Cristo… Però la riflessione sulla famiglia non sta toccando questi capitoli. Sta invece interessando i modi di vita delle persone, il quadro delle relazioni (di coppia, genitoriali, intergenerazionali), le fatiche e le soluzioni che socialmente stiamo considerando o sperimentando alla ricerca di un buon vivere.

Rispetto a questo spettro di questioni la dottrina cattolica rimarca alcune intuizioni su cui difficilmente si può dire che abbia un copyright: in una relazione di coppia la fedeltà è preferibile al tradimento; la stabilità delle relazioni è preferibile al carosello delle sperimentazioni; per i figli crescere essendo accuditi da entrambi i genitori è preferibile rispetto al rimanere orfani (di uno o di entrambi i punti di riferimento primari).

Finora non ho ancora incontrato nessuno che si auguri per i propri figli che diventino abili nel tradire e nel ferire, voraci consumatori di rapporti superficiali, un domani adulti noncuranti dei figli che avranno distrattamente messo al mondo a destra e a manca.

Poi, lo sappiamo, le cose – nella vita che si fa storia concreta – vanno anche diversamente dagli auguri che ci scambiamo.

Però l’intuizione che questi auguri siano ben fondati, a quanto pare, non siamo in grado di rimuoverla. Anzi, proprio quando le cose sullo scacchiere delle relazioni vanno diversamente, la vita stessa ci parla, producendo quel senso di disagio che gli antichi chiamavano “tristezza” e che noi oggi potremmo definire “insoddisfazione”.

La vita ci parla (su tanti fronti) con quel suo grido di protesta spesso viscerale e lo fa – almeno su questi snodi essenziali – ben prima che arrivi qualcuno a scrivere su carta delle regole di buona condotta. Ben prima che arrivi il personale di Chiesa (come scriveva Maritain) a segnalarci (magari un po’ troppo ex post) il significato ulteriore che fedeltà, donazione e responsabilità assumono quando chiediamo il sigillo del sacramento per la relazione di coppia.

Questa tempistica antropologica va compresa a fondo e presa sul serio, perché aiuta a capire che – su questi aspetti di base – la dottrina è già in sintonia profonda e intuitiva con la vita, e che di repellente porta solo quel nome così usurato.

Nel quadrante delle relazioni fondamentali la dottrina semplicemente dà parola umana a quel che ciascuno già avverte in se stesso. Per gli antichi la “legge naturale” era anzitutto questo: la parola in cui noi raccogliamo quel che la vita da sé attende per essere buona, soddisfatta. Una parola stupefatta e stupefacente, capace di dire quel che l’umano racconta pressoché unanime nelle diverse epoche, nelle diverse culture. Quasi un miracolo di convergenza, in un mondo di grandi diversità, che meritava di essere evidenziato.

Evidenziato per sostenere lì dove non ce la facciamo (perché gli auspici, da soli, non scrivono la storia), non per mortificare lì dove non ce l’abbiamo fatta. Perché l’intento degli appassionati di umanità – lo scriveva nel 1923 Jacques Maritain, «è di cercare il positivo in tutte le cose, di avvalerci del vero più per guarire che per picchiare». E scriveva questo a Jean Cocteau ragionando – tra l’altro – di omosessualità. (Cfr. J. Maritain, Réponse à Jean Cocteau, in Jean Cocteau - Jacques Maritain, Gallimard, Paris 1993, p 336).

Allora la domanda diventa: quanto confidiamo in quel che la storia del pensiero ha riconosciuto da secoli, e cioè che nell’umano ci sono dei richiami fondamentali che si possono disattendere individualmente (per motivi personali anche molto diversi) ma non cancellare collettivamente? Quanto confidiamo in quel che affermiamo, e cioè che la dottrina – a rischio di pedanteria: su quei pochi assi che vanno sotto il nome di “legge naturale” – non fa altro che esprimere le attese cha la vita già porge da sé?

Perché se in fondo pensiamo che ci sia estraneità tra le intuizioni radicali della vita e la dottrina, va da sé che immagineremo che anzitutto si tratti di insegnare una teoria (controintuitiva), e che sia necessario insistere ad alta voce perché – se non lo si farà – la dottrina svanirà ben presto. Proprio come svaniscono tutte quelle cose che la vita da sé non reclama o racconta e che ogni generazione ha il compito di custodire e tramandare perché non vadano perdute.

Ma se al contrario riconosciamo che c’è una radicale intimità tra le intuizioni della vita e la dottrina, allora diventa più chiaro che lì dove la vita già si lamenta (più o meno sommessamente) con il sintomo dell’insoddisfazione, lì non si tratta di estenuarsi nel ribadire quel che la tristezza già rende noto. Se la dottrina intorno ai fondamentali dell’esistenza umana è davvero legata alla verità della vita, non corre il rischio di essere dimenticata, né dalle generazioni presenti né da quelle future.

Dove c’è questa consapevolezza diventa più chiaro che il baricentro della questione si sposta: di fronte alle situazioni controverse e alle relazioni ferite, non si tratta di emettere (inutili) certificati di non conformità, ma di capire come sia possibile riapprossimarsi a quel che la vita stessa (più o meno sommessamente) reclama.

Sapendo che la linea del tempo non può essere riavvolta cancellando quel che è stato.

Sapendo che lo spazio di riapprossimazione possibile, proprio come quello dell’allontanamento, ha una misura individuale che chiede di essere messa a fuoco vicenda per vicenda.

In questa seconda ottica non c’è il pericolo di confondere le soluzioni di riapprossimazione con una nuova dottrina o con un suo “aggiornamento”, e questo semplicemente perché proprio nella vita reale attese fondamentali e soluzioni biografiche non si confondono.

Ci sono elementi di base della dottrina cattolica sulla famiglia rispetto alla cui tenuta nell’animo umano proprio chi sposa l’insegnamento filosofico classico sulla “legge naturale” non dovrebbe nutrire timori.

Se quegli elementi tengono – forse – vale davvero la pena di concentrarsi su tutto quel che invece non è altrettanto intuitivo e semplice: è il versante dei percorsi realistici e non accademici di cambiamento, il versante della ricostruzione, della cura (care). È il versante del ricorso a quegli aiuti talvolta insperati e sempre sorprendenti che vanno sotto il nome di “Grazia”, e che il Dio di misericordia ha affidato alla Chiesa di dispensare.

E tutto questo, o così almeno mi pare, è difficile immaginare che possa porgerlo chi si presenta col volto teso e iroso del picchiatore.