LA POTENZA DELLA PAROLA

«Chi ziga forte ga sempre ragiòn» (chi urla forte ha sempre ragione). È un detto popolare delle mie parti, probabilmente simile in chissà quanti altri posti, e fotografa la dinamica piccola delle nostre liti: se non riusciamo a ricomporre presto le diversità di vedute il tono della voce si accende, ci si allontana anche fisicamente – gli automobilisti/piloti sono un esempio plastico nel lancio delle reciproche invettive – e ci si sgola, nel tentativo di sovrastare la voce dell’altro dinnanzi al pubblico improvvisato che inevitabilmente si sarà destato e sarà accorso. Alla fine ha ragione, cioè riesce a rimanere più impresso nell’uditorio, chi ha urlato più forte. Nei talk show non va diversamente rispetto al mercato. Il giorno dopo le grandi manifestazioni per Charlie Hebdo riflettevo sul fatto che nell’immaginario degli attentatori, in qualche modo, hanno potuto più le vignette (urlanti?) di una prima pagina che non la pratica (silenziosa, senza punti di domanda) di accoglienza, di tolleranza e di integrazione che certo non manca in un Paese come la Francia.

La parola – sussurrata, urlata, scritta, rappresentata… –, ce ne rendiamo conto ancora una volta e drammaticamente, è uno strumento potentissimo.

C’è la parola che consola, e tutti sappiamo quale balsamo possa essere nelle nostre solitudini, nei momenti in cui tutto sembra collassare.

C’è la parola che incoraggia, altrettanto efficace. Non parlo della proverbiale pacca sulla spalla. C’è qualcosa di molto più reale. Quando accompagni qualcuno nel superare un passaggio difficile in montagna capisci che c’è una grande differenza tra l’illustrare a secco come affrontare la roccia e l’essere lì accanto, parlando alla persona mentre esegue una manovra. Senza quella presenza che si fa parola molti attraversamenti rimarrebbero invalicabili. Qualcosa di simile accade anche nei processi di riabilitazione: la presenza di un terapista che accompagna la movimentazione con le mani e insieme con la spiegazione e l’incoraggiamento è notoriamente la più efficace.

C’è la parola che denuncia, che attira l’attenzione con la sua forza e che conquista – sia pur in modo diverso – offesi e offensori. Facilmente gli offesi, perché dà voce alla loro attesa di giustizia. In modo meno appariscente ma altrettanto efficace gli offensori, perché quando una parola ci mette a nudo di fronte a noi stessi, di fatto ci conquista, ci tocca. E ce ne rendiamo conto, perché se non vogliamo registrarla in noi stessi non possiamo far altro che ricorrere dentro (e fuori) di noi allo stratagemma del «chi zìga forte»: per sovrastare un richiamo giusto che interpella bisogna alzare il volume delle proprie ragioni. Oppure, in qualche misura, arrendersi e rivedere qualcosa di sé.

C’è però anche la parola che ferisce. Alle volte lo sappiamo che sarà così, perché colpire ferendo è nelle nostre intenzioni, magari come “coda” di un diverbio simili a quelli dei mercati di memoria popolare. Alle volte però dipingiamo la lama che esce dall’anima come se fosse semplicemente una parola che denuncia, quasi meravigliandoci degli effetti collaterali che la stoccata ha generato.

Il punto è che – a conti fatti – non possiamo essere noi parlanti da soli a stimare fino in fondo dove stia il confine tra denuncia e ferita. Ce lo rivela solo la risposta di chi riceve le nostre parole.

Stabilire il limite tra il richiamo giusto e lo sberleffo che mortifica e umilia è una tra le più grandi imprese cooperative nello scambio delle parole difficili. Questo limite esige una grandissima capacità di ascolto delle reazioni dell’altro, per ritarare continuamente il peso della parola, in modo da raggiungere i punti dolenti senza recidere, in modo da mettere a nudo ma senza togliere la dignità. Che, alle volte, è una questione sottile come il telo verde che copre un paziente in sala operatoria.

Una società dai molti volti e dalle molte culture deve fare i conti continuamente con il potere della parola. E non può ignorare che la parola forte, di denuncia, ha sempre dinanzi a sé due possibilità: quella di consentire a tutti di fare un passo avanti insieme o, viceversa, quella di ferire scavando un solco maggiore tra chi – magari su una questione sola – coltiva visioni diverse.

Non possiamo non essere indignati e concordi nella denuncia della violenza che ha colpito Charlie Hebdo: non c’è giustificazione – religiosa o laica che sia – per l’attentato alla vita altrui. Allo stesso tempo non possiamo neanche avere la faccia stupita di chi non conosce la potenza della parola. Non nella società della comunicazione e dell’advertising.

Scendere in così tanti in piazza può non essere una «lavatrice della coscienza» – per usare qui una espressione dai risvolti ambigui di Marine Le Pen – se tutto questo si tradurrà anche in una maggiore attenzione per le parole severe che tutti ci scambiamo e che, certo, in una società libera dobbiamo poter continuare a scambiarci. Perché ha ragione non «chi ziga forte», ma chi sa trovare (ed accogliere) parole decise tanto quanto amiche negli attraversamenti più delicati, tenendo continuamente in primo piano quel che la sensibilità dell’altro restituisce.