QUANDO I SOTTOTITOLI SPAVENTANO

«Il titolo non è male, ma quel sottotitolo…» Se guardando l’immagine anche voi avete pensato questo, non posso darvi torto. Però questa volta dovevo rendere merito, con un po’ di latinorum anche in copertina, al buon (vecchio, vecchissimo) Tommaso d’Aquino, perché il copyright delle idee che ho raccolto è tutto suo. Non prometto una lettura da ombrellone - perché non lo è - ma se vi può incuriosire il fatto che le future e i futuri assistenti sociali che si formano all’Università di Padova se la stanno cavando benissimo con questo gigante del XIII secolo (cercare #AuleAperte su twitter per credere), allora leggetevi almeno l’introduzione. Che, alle volte, il diavolo – anche se in questo caso si tratta di un santo – non è così brutto come lo si dipinge…

Alter-nativi. Prospettive sul dialogo interiore, a partire dalla "Moralis consideratio" di Tommaso d’Aquino. Edizioni Meudon, 2015. | Dall'introduzione

 

La tradizione cristiana tramanda un detto di Antonio, considerato l’iniziatore del monachesimo: «Chi siede nel deserto per custodire la quiete con Dio è liberato da tre guerre: quella dell’udire, quella del parlare e quella del vedere. Gliene rimane una sola: quella del cuore».

Nel deserto non ci sono voci da ascoltare, non c’è nessuno a cui rivolgere una parola, non c’è nulla di nuovo da guardare, perché tutto è uguale a sempre. Questa descrizione potrebbe far pensare a luoghi distanti dai paesaggi più tipici della società occidentale, eppure il deserto fa capolino continuamente nella nostra chiassosa, affollata e immaginifica società occidentale del XXI secolo.

Sono deserto gli attimi di un adolescente che ha appena litigato con i genitori: una porta sbattuta alle spalle, orecchie chiuse agli inviti di chi bussa da fuori, bocca cucita – lasciatemi in pace, non voglio parlare –, davanti agli occhi il solito specchio di soffitto che si vede dal letto. Dentro, in quel qualcosa di non meglio precisato che molti chiamano “anima”, il tumulto dei pensieri: non mi capiscono. Per me era importante. Perché non mi lasciano fare quello che voglio? Loro non lo sanno che cosa è bene per me. Lo farò lo stesso. Ma adesso che ora è? Chi se ne importa.

Sul comodino la salvezza: un iPod, per far cessare la guerra.

Sono deserto gli attimi di un giovanissimo che ha appena litigato con la ragazza: il tragitto verso casa in silenzio, il percorso così solito da poterlo fare a occhi chiusi. Dentro il groviglio dei pensieri: ho detto una parola di troppo. Questo avrei dovuto farglielo notare. Quando lo capirà che… Mi lascerà? Tra noi due non funziona più. Come faccio a dirglielo? Quello sguardo della sua amica… era tanto che non mi sentivo così. E se mi sbagliassi?

Sullo schermo dello smartphone la salvezza: il migliore amico, che chiama per due tiri a calcetto.

Sono deserto gli attimi di una ragazza che ha appena fallito l’ultimo esame: il tempo delle domande si è chiuso, come quello delle risposte. In autobus solo facce sconosciute. Dentro, pensieri che si affollano: ma perché non mi sono venute le parole? Eppure l’avevo studiato. Il prof. non mi ha lasciato il tempo, che… Mi tocca saltare la sessione di laurea. Quando il prossimo appello? Rischio il fuori corso. Oddio, le tasse! E chi lo dice adesso ai miei?

Dalla tasca la salvezza: un trillo annuncia un SMS, qualcuno che si fa vivo.

Sono deserto gli attimi di una coppia che si ritrova in cucina dopo un’incomprensione non chiarita: nessuna parola, i gesti automatici di preparazione della tavola e della cena in un luogo troppo solito per inventarsi un diversivo. Dentro, ciascuno con il proprio frastuono di pensieri: sta qui e non dice niente… Ma avrà capito che ho ragione io? Non ho voglia di litigare. Mi irrita solo a vederlo… Non la sopporto quando fa così.

Dal citofono la salvezza: qualcuno dei figli sta rientrando a casa.

Sono deserto gli attimi di chi ha appena conosciuto la propria diagnosi dopo una serie di accertamenti: salutati i medici che hanno messo al corrente delle possibilità rimane da decidere cosa fare. È più lenta del solito la strada verso casa, è lunga l’attesa prima di poter condividere un peso con qualcuno. Fuori il mondo diventa uno sfondo sfocato. Dentro si infiammano i pensieri: sì, andrà tutto bene… Ne verrò fuori? Ma perché proprio a me? Adesso bisogna cambiare tutto. Forse meglio qualche altro accertamento. Devo informarmi su quella clinica… Ma Dio dove diavolo è?

Da un clacson la salvezza: il semaforo è diventato verde.

Sono deserto gli attimi di un anziano che ha ultimato la piccola serie dei riti quotidiani del pomeriggio: anche oggi nessuna visita, la telefonata a un amico lontano sempre più breve – nulla di nuovo da raccontare –, la poltrona del soggiorno che accoglie comodamente. In casa regna un silenzio che sa troppo di vuoto. Dentro affiorano pensieri radi, fastidiosamente ricorrenti: ogni giorno sono più lento. La caffettiera era troppo dura da svitare, anche in questo mi dovranno aiutare. Mi piacerebbe uscire, sono chiuso qui da tanto. Ma non mi lasciano, dicono che è pericoloso. Sono cattivi. Quante cose facevo da giovane. È vita questa? Si sta facendo buio. Ho paura, di notte si può morire.

Dal telecomando sul tavolino la salvezza: un semplice tasto e il soggiorno è inondato da un fiume allegro di immagini e di suoni.

Il deserto è questione di attimi. Attimi in cui ci rendiamo conto che il silenzio fuori non corrisponde al silenzio dentro. Attimi in cui comprendiamo che sospendere la guerra dell’udire, del parlare e del vedere non significa trovare pronta la pace: si passa ad un altro livello di battaglia, di conflitto, spesso tumultuoso. La pace, se mai c’è, non è ancora qui, non è sulla soglia del deserto.

Questione di attimi, molto spesso, perché siamo pronti a lasciarci nuovamente catturare da qualcosa che possa distrarci da quel che sta accadendo dentro, svelti nel farci salvare da qualcosa che possa letteralmente tirarci fuori: fuori, di nuovo nel fare, nell’ascoltare, nel dire, nell’incontrare, nello sperimentare cose nuove. Fuori, via dal ginepraio caotico dei pensieri che si affastellano prosciugando le nostre energie. Fuori perché lì dentro, alle volte, ci si sta male.

Gli antichi non erano estranei a queste situazioni e si sottoponevano volontariamente alla prova prolungata del deserto. La consideravano un esercizio, un’esperienza da attraversare «per custodire la quiete con Dio», scriveva Antonio.

Al di là del caos generato dalla presenza scomposta dei pensieri, delle domande, dei propositi, ci si attendeva che anche la dimensione interiore fosse caratterizzata fisiologicamente dalla compagnia, e che la solitudine dentro fosse al contrario una patologia del profondo. Oltre il tumulto delle parole ci si attendeva di poter trovare un interlocutore, una presenza altra e benefica – un alter – con cui rimanere, con cui intrattenersi sulle stesse cose della vita ma in modo pacificato, ristoratore. Proprio come ristoratrice è ogni autentica amicizia.

Se la buona compagnia era così vitale fuori, doveva esserlo anche dentro; per questo attraversare il deserto era l’impresa delle imprese, quasi la prova della maturità: era un mettersi in viaggio per affrontare prima i tanti volti dell’alterità – nessuno si illudeva che ogni alter fosse benefico – e lo spettro stesso della solitudine, per scoprire se l’ultima parola, dopo che tutto ha taciuto fuori, dopo che si è combattuto dentro con i volti ambigui e predatori dell’alterità, è Io oppure Noi.

Solo dall’attraversamento del deserto si poteva ritornare radicati nella buona compagnia e andare al di là dell’intuizione – autentica, ma in sé fragile – che il Noi, dentro e fuori, sia una dimensione essenziale per la vita.

È interessante notare che anche in un mondo tutto improntato al social, in cui è potente il richiamo del plurale, siamo tutti più inclini a ritirarci dalla prova del deserto. Dagli attimi di deserto, appena possibile, scappiamo, aggrappandoci alla prima mano tesa che ci riporta fuori. È come se confidassimo che la vita si possa attraversare da capo a capo senza varcare decisamente la soglia di questa dimensione interiore. O, forse, che in ogni caso, all’occorrenza, sarà cosa elementare affrontare la «guerra del cuore»: distinguere i pensieri, dare volto alle suggestioni, distinguere le voci che ci strattonano, scegliere bene, disarmare le paure…

Quell’osservatorio doloroso che è il mondo del disagio – l’“area” come anche la chiamiamo per esorcizzarla un po’, per tracciare un confine oltre cui immaginiamo che la vita sia diversa – nella sua ampia fenomenologia smentisce, se mai le avessimo, queste attese.

In molti frangenti le presenze di cui si circonda la vita non si rivelano protettive e buone come avremmo desiderato, sperato. Molte persone, specialmente nelle vicende di dipendenza, rimangono come intrappolate tra un Noi esteriore che è collassato e un Noi interiore che non è mai maturato. Dentro rimane l’Io, a lottare da solo con una presenza ingombrante e inanimata che tuttavia consuma la vita: il “bicchiere”, la “roba”, la slot… Presenze interiormente avvertite, che surrogano la compagnia vitale e salvano, per brevi istanti, solamente dal frastuono di un deserto che appare in espansione e troppo arduo da affrontare.

In altri casi le presenze esteriori rimangono buone, protettive, le migliori. Ma magari un evento inatteso, la rottura di un equilibrio o un’invalidità proiettano improvvisamente davanti a interrogativi abissali: da domani non sarà più la stessa cosa, ma come affrontare la fatica e la novità senza esserne travolti? Qualcosa di simile, anche se non in modo repentino, accade con la perdita dell’autonomia nell’età avanzata. Fuori un mondo accogliente di mani tese, dentro un mondo sconosciuto di paure, di pensieri cupi, di suggestioni assillanti che l’Io, da solo, scopre di non aver strumenti per affrontare. Perché se quel dentro l’Io non lo ha mai affrontato seriamente, imparare le manovre – per quanto semplici – della lotta interiore non è così agevole quando l’età si fa più avanzata.

Si potrebbe quasi formulare una diagnosi ad ampio spettro del malessere contemporaneo, una diagnosi che parte anche dal mondo del disagio, ma che in fondo abbraccia l’esperienza di generazioni: la percezione di solitudine interiore – non il buon raccoglimento, ma quell’isolamento che parla di abbandono, di naufragio, di parola propria che cade nel nulla – è, oggi come sempre, la grande matrice di sofferenza. Ma forse oggi ne siamo più esposti, perché immaginiamo più facilmente che la buona compagnia sia essenzialmente un fatto esteriore.

Solitudine interiore è l’angoscia davanti alle grandi domande su quel che ci attende, è la confusione davanti ad una decisione da prendere, è il peso insopportabile di un tempo di immobilità che costringe all’attesa, è l’impotenza rabbiosa davanti agli eventi imprevisti, è il fastidio piccato per una realtà che sfugge dalle mani, che si sottrae al nostro controllo, è la resa cinica all’inguaribilità delle ferite subite e inferte nelle vicende biografiche di ciascuno.

L’esperienza del disagio cronicizzato, in tutte le sue tonalità e quale che sia il suo volume, protesta a gran voce il dramma della solitudine sofferente e, in molte delle sue forme, rivela quanto sia essenziale per ciascuno imparare appena possibile ad affrontare la «guerra del cuore» a cui si rivolgevano i monaci dell’antichità. Per non indebolire l’intuizione del Noi, per non arrendersi subito quando questa intuizione si infrange fuori, occorre imboccare le piste polverose che si inoltrano dentro, senza rinviare troppo l’invito degli attimi di deserto, che continuamente si dischiudono anche in un mondo fragoroso come il nostro. [...]