Il gender... «NON lo so. Ma non mi fido»?

Nella versione cartoon di Biancaneve e i sette nani, scoprendo la principessa nascosta nella casetta, Brontolo avverte minaccioso: «È una femmina. E le femmine sono perfide e piene di arti subdole». Un altro nano subito chiede: «Cosa sono le arti subdole?». E Brontolo: «Non lo so. Ma non mi fido». Anche nella “questione gender”, che sta creando non poche agitazioni, persino di piazza, si sono attivate dinamiche di questo tipo. In un post, decisamente non telegrafico, provo a segnalare alcune attenzioni che definirei «deontologiche», che mi pare stiano mancando nell’evoluzione precipitosa del dibattito sulle relazioni affettive e famigliari. Ci sono tanti modi di porre i problemi, di segnalare rischi, di avanzare proposte. Alcuni di questi – tra cui, a mio parere, le manifestazioni di piazza – rischiano di contrarre gli spazi di incontro e ascolto reciproco dei diversi. E, invece, proprio per la delicatezza e complessità delle questioni, sono spazi che andrebbero piuttosto dilatati.

    Parto proprio dalla parola inglese “gender”. In molte persone vedo oggi occhi sbarrati al solo sentirla pronunciare, specie se incastonata nell’espressione “teoria del gender” e, più oltre ancora, nella sua flessione valutativa: “ideologia del gender”. Poi, se chiedo a che cosa ci si sta riferendo, constato regolarmente che quel che si ha in mente è un mix variegato di tesi, tra cui l’idea che ciascuno sia invitato a scegliere se essere uomo o donna a capriccio, a prescindere dall’ascolto della corporeità, che si vogliano destabilizzare le intuizioni di sé e della propria identità dei bambini e che li si voglia avviare alle pratiche sessuali quando ancora non sanno leggere, scrivere e far di conto.

    Ora, non nego che in qualche “teorico”, come in qualche “educatore” ci siano idee di questo tipo. Tuttavia rimane scorretto intellettualmente caricare di un’aura univoca di nefandezza un termine a cui fanno ricorso molte linee di pensiero, diverse tra loro per temi e sviluppi, portatrici di istanze politiche a loro volta articolate. Perché Brontolo può aver ragione da vendere nel temere la strega e i suoi disegni malefici. Ma questo non significa ipso facto che il genere «femmina» sia «perfido e pieno di arti subdole» in ogni sua concretizzazione.

    Con questo non voglio dire che sposo la visione antropologica maturata nel pensiero strutturalista e poststrutturalista, che recepisco ogni intuizione psicanalitica, che sottoscrivo le idee di Judith Butler o che ritengo non problematica la «queer theory» (questa sì che esiste, a differenza della «gender theory», che è un costrutto polemico).

    Dico solo che, come insegnava Maritain, occorre essere onesti intellettualmente con il pensiero altrui, anche quando non se ne condivide una sola virgola. E la prima forma di onestà consiste nel non ridurlo ad una macchietta a proprio uso e consumo. Questo è l’unico punto di partenza a mio avviso accettabile se si intende davvero capire, discutere e confrontarsi puntualmente sui diversi problemi. Approfondire, darsi il tempo per una esplorazione più accurata, è essenziale proprio per evitare le generalizzazioni: a far di tutte le erbe un fascio non si mettono maggiormente in evidenza i rischi o le incongruenze di questa o quella tesi. Si dà invece prova di superficialità e disinformazione, pessimo biglietto da visita se – in fondo – quel che si intenderebbe fare è esprimere dei timori e invitare al confronto nel merito preciso delle questioni.

    Un post, per quanto non telegrafico, non è luogo per offrire approfondimenti più dettagliati sul tema degli “studi di genere”, sui diversi autori e autrici e sulle diverse linee e rivendicazioni socio-politiche: è un capitolo corposo di storia del pensiero filosofico e – come per ogni disciplina scientifica – occorrerebbe affrontarlo, come volevano gli antichi, sine ira et studio, senza animosità e con impegno intellettuale. Mi limito qui a segnalare un breve lavoro di Susy Zanardo, apparso su Aggiornamenti Sociali: sono 12 pagine, argomentate, con critiche e apprezzamenti, utili per farsi quantomeno un’idea della complessità di quel che si vorrebbe inquadrare in una “teoria” univoca.

 

    Una seconda osservazione, sempre nel quadro delle attenzioni «deontologiche», riguarda il mondo dell’informazione. Tutti sappiamo quanto le narrazioni siano importanti: sono uno degli strumenti comunicativi più efficaci in vista di una call-to-action, volendo cioè indurre altri a fare qualcosa. Lo sapevano gli antichi, che raccontavano grandi storie per dispensare saggezza e nobilitare l’umano, lo sanno i pubblicitari contemporanei che sviluppano lo storytelling per vendere prodotti. I racconti, le narrazioni, non appartengono però al mondo dell’informazione, e chi li ascolta ne è avvertito: per questo possono utilizzare parti di “storia vera” modificandole secondo le esigenze esortative, senza che si generino effetti collaterali.

    Oggi anche chi fa cronaca – cosa che invece chiede aderenza ai fatti e testimonianze di prima mano – rischia alle volte di sconfinare in questo genere letterario, riferendo questa o quella vicenda a partire da una finalità esortativa. A differenza però di quanto accade con una narrazione, in una cronaca l’implicito è che si stia parlando di fatti puntuali ed accertati. Se – per qualche motivo – il lettore scopre che le cose sono andate diversamente da come gli sono state riferite (per indurlo a fare-qualcosa), l’effetto collaterale è che la call-to-action fallisce e soprattuto che l’incauto narratore, troppo precipitoso nel generalizzare, perde credibilità. Diventa un “inascoltabile” su tutta la linea. Con evidente danno anche per le cose sensate e corrette che, in altri frangenti ha detto o potrebbe dire.

    Vorrei fare – rimanendo in tema “gender” – un semplice esempio in proposito.

    Il settimanale cattolico Vita Nuova si è occupato tempo fa del Progetto Porcospini, un’iniziativa proposta alle scuole di Trieste, finalizzata alla prevenzione della violenza sessuale sui minori, nel cui impianto si faceva riferimento agli "stereotipi di genere". In una lettera al direttore – neppure la lettera è una cronaca, ma in questo caso sollevava interrogativi riportando fatti che si suppone siano accaduti – si segnalava che «da alcuni genitori, i cui figli già hanno seguito i corsi, è emerso che molti bambini sono tornati sconvolti da queste lezioni, con poca voglia di parlare e di partecipare alla lezione successiva. Ai bambini è stato detto: “non parlate di queste cose a casa, non portate a casa il quaderno (“Caro Diario”) che vi facciamo scrivere”», annotando che «essendo questi progetti “curriculari” in alcune scuole, vengono svolti senza informare dettagliatamente i genitori e senza ottenerne un consenso consapevole». Chiudeva il tutto l’interrogativo dell’autore: «Come opporsi a questa banalizzazione del sesso portata avanti in questi corsi di educazione sessuale che snaturano la sessualità e la propongono in modo distorto ed in un periodo estremamente precoce della vita?».

    La risposta del direttore concedeva le «buone intenzioni» alla proposta, ma le considerava «travolte sia dai contenuti che banalizzano e svuotano la sessualità, sia dai metodi, che non coinvolgono i genitori e non tengono conto della maturazione dei bambini».

   Da lettore avrei concluso che è il caso di allarmarsi: gender, bambini sconvolti e invitati al silenzio, genitori all’oscuro, contenuti che banalizzano la sessualità (il modo indicativo dei verbi – banalizzano, svuotano, non coinvolgono, non tengono conto – dà per assunto che le cose stiano così).

    È accaduto però che la classe di mia figlia sia stata interessata dal Progetto Porcospini. Come genitori siamo stati informati e invitati a più incontri di presentazione, abbiamo potuto esporre questioni e fugare perplessità, conoscere e leggere i testi di riferimento di Alberto Pellai. Gli insegnanti sono sempre rimasti in classe con i ragazzi, si sono svolti regolarmente gli incontri in parallelo con i genitori e alla fine si è fatta una verifica molto dettagliata. Cosa ne ha tratto nostra figlia? Che se ci sono situazioni di relazioni con altri adulti che non la convincono e la mettono a disagio non deve mantenere il segreto, che fa bene a parlarne senza timori con mamma e papà, che se qualcuno volesse farle fare cose che la imbarazzano e che avverte come stonate e pericolose non deve temere di sottrarsi, di dire di no, di gridare, di chiedere aiuto. Erano gli obiettivi dichiarati, è quello che nostra figlia ha recepito. Nessuna reazione sconvolta, rinforzo nella confidenza con i genitori, nessun contenuto che banalizzasse la sessualità. 

    A partire da quel che abbiamo visto, incontrato ed approfondito di persona, l’allarmismo di Vita Nuova risultava infondato, e la cosa è parsa evidente ai genitori che hanno seguito il Progetto e che si erano inizialmente impensieriti. L’effetto collaterale non è mancato: il dubbio di una informazione rimaneggiata, forse non adeguatamente verificata e – questo certamente – utilizzata come leva per sollevare allarmi generalizzati in vista di una call-to-action, ha avvolto il settimanale e la sua direzione.

    Sulla questione dell’attendibilità di una fonte le scottature lasciano cicatrici indelebili: se l’accaduto di cui si è stati testimoni è l’esatto contrario del narrato dalla carta stampata, chi ci assicura che lo stesso non valga anche nelle altre cronache, di cui non si è stati testimoni diretti? Purtroppo nessuno può farlo. Ed è un danno per l'informazione, per il pluralismo e per il dibattito, perché finisce che si perdono nelle nebbie del legittimo sospetto di allarmismi infondati anche tutte le altre segnalazioni di una testata, incluse quelle di effettiva consistenza (come nel caso di alcuni orientamenti dell'OMS in materia di educazione sessuale, non certo esenti da problematicità).

    Questo, almeno, fino ad un cambio di direzione.

 

    Vengo così alla call-to-action, alla mobilitazione di piazza. Le dinamiche che ho evidenziato sopra con un esempio concreto pongono un primo problema: quando l’informazione scivola, quando non riporta più “campane” e al contempo si affretta a generalizzare, quando ci si accontenta di parole d’ordine, diventa difficile per tutti capire se il movente del radunarsi siano ragioni consistenti o piuttosto paure, fondate su fraintendimenti, su analisi superficiali o su notizie inattendibili. La cosa vale, naturalmente, per tutte le “parrocchie”. Così cresce il dubbio che si stia assistendo ad uno scontro tra ideologie, in cui da nessuna parte si risparmiano i colpi bassi. E questo induce molti a disinteressarsi del tema di cui si dibatte.

    C’è poi un secondo problema, che mi sembra ancora più rilevante e che riguarda lo strumento stesso della chiamata in piazza, nell’affrontare tematiche articolate e controverse.

    Se la piazza si trova a Roma è chiaro che, simbolicamente, l’interlocutore è uno solo: il legislatore. Al legislatore una piazza gremita non offre delle ragioni – specialmente poi quando queste sono frastagliate in tanti slogan: per la famiglia, per la libertà di educazione, contro il gender, contro le unioni omosessuali, per la libertà di espressione… – ma offre una prova di forza. Offre numeri. Offre un’esibizione del potere di indirizzare il consenso, cosa a cui in tempi plebiscitari il decisore politico è indubbiamente sensibile.

    Ecco, questo genere di prove di forza non mi convincono, almeno per due motivi.

    Il primo è un motivo “laico”: sono raduni che raccolgono quelli che già la pensano allo stesso modo, non incontrano chi la pensa diversamente per discutere; anzi, semmai allontanano e dividono maggiormente. Allontanano anche quelli che, solo a provare ad essere meno approssimativi con le etichette, potrebbero invece scoprirsi più vicini e buoni alleati nel selezionare con più cura quel che valorizza e quel che mortifica l’umano. Si marcia per la famiglia magari, ma la logica è la stessa del gay pride: personalmente faccio fatica a pensare che chi getta in faccia agli altri il proprio orgoglio come una provocazione desideri davvero incontrare, proporre e ascoltare. Ed invece, come comunità civile, di questo abbiamo bisogno per uscire da molte contrapposizioni.

    Il secondo motivo – ed è forse il più radicale che mi tiene lontano specificamente dal cattolicesimo di piazza, che cerca l’attenzione del legislatore – mi viene dall’esempio dell’antichità cristiana. Il vangelo ha conquistato gente di ogni sorta con la sua forza liberante, non in virtù di una legislazione civile favorevole, non di campagne militari. Semplicemente con un vivere diverso, caratterizzato da grande fermezza quanto alle proprie scelte personali, ma accompagnato da una parola mite verso l’altro, da un interloquire personalizzato e non generalista, dall’invito alla condivisione di un’esperienza, dalla progressiva scoperta delle sorgenti spirituali in cui questo vivere si radica. Raccogliersi in piazza per dare un messaggio al legislatore non vedo come si componga utilmente con tutto questo, con il desiderio di coinvolgere altri in una scoperta di libertà e bellezza, che certo ha molto a che fare proprio con la dimensione degli affetti e delle relazioni.

 

    Sono semplici segnalazioni, per dire ancora una volta che – a voler costruire insieme – al «non lo so, ma non mi fido» è preferibile il «cerco di approfondire, vedo quali sono i margini di fiducia». In fondo, è proprio dandosi più tempo e frequentando Biancaneve che Brontolo ha capito che le femmine non sono necessariamente tutte perfide e piene di arti subdole, senza per questo dare per scontato che in giro non ci sia alcuna Maleficent, delle cui trame è bene essere avvertiti.