QUELLA SOGLIA TRA IL RISCHIOSO E IL TERRIBILE

«La paura – ha scritto Zygmunt Bauman – ci spinge ad un atteggiamento difensivo. Una volta assunto, esso dà immediatezza e concretezza alla paura. Sono le nostre reazioni che trasformano gli oscuri presagi in realtà quotidiane, facendo diventare carne la parola» (Il demone della paura, Laterza, Roma-Bari 2014, p. 16). Commentando lo scenario europeo e la vicenda della Grecia Luigi Alici ha osservato che «la paura genera il tribalismo, il tribalismo scatena simultaneamente una voglia cieca di compattarsi all'interno e un'aggressività altrettanto cieca verso l’esterno» (Europa in bilico). È una riflessione che merita di essere ripresa, perché credo valga anche nel caso della “questione gender” che ha sollecitato qualche discussione negli ultimi tempi. È quando la segnalazione del rischioso cede il passo all’evocazione del terribile che entra in scena la paura con la sua ambigua corte. Su questa genesi, e su quel che comporta, può essere utile sostare ancora un po’.

   La forza oscura di ogni paura risiede nella sproporzione tra la realtà e la sua rappresentazione, e questa sproporzione si crea sempre nelle pieghe di quei racconti che, passando di bocca in bocca, pian piano trasformano il rischioso nel terribile.

   C’è un episodio conservato nel Libro dei Numeri che mostra quanto gli antichi conoscessero bene questa dinamica. Al capitolo 13 si narra degli esploratori mandati da Mosé a perlustrare il paese di Canaan: questi, al loro ritorno, confermano sia la bellezza dei luoghi – «vi scorrono davvero latte e miele» (13,27) – sia la presenza di popolazioni fiere – «il popolo che abita quella terra è potente» (13,28) – tra cui «i discendenti di Anak» (13,28). L’insediamento nella nuova terra non si preannuncia una passeggiata, ma vale la fatica ed è inizialmente stimato possibile. Questo, almeno, è il parere di Caleb, che sembra trarre la conclusione più logica al termine del primo rapporto: «Dobbiamo salire e conquistarla, perché certo vi riusciremo» (13,30).

   Quel che accade in seguito è molto istruttivo, perché mostra precisamente la genesi del terribile. Alcuni degli esploratori, forse pensando di rinforzare così la percezione del rischio, amplificano la rappresentazione della difficoltà dell’impresa: il popolo che abita i luoghi, da «potente» qual era riconosciuto prima, inizia ad apparire «più forte di noi» (13,31); poi questo popolo diventa nei racconti «tutto […] di alta statura» (13,32) finendo per essere «della razza dei giganti» (13,33). L’effetto di questo crescendo comunicativo, in cui si perde il senso della misura, non tarda a manifestarsi: la comunità «alzò la voce e diede in alte grida» di disperazione (14,1). Monta la protesta e tutti vengono trascinati dapprima verso la decisione più lontana dalla logica del cammino fatto fin lì: ritornare in Egitto, alle comodità di una vita senza rischi ma schiava. Gli inviti di Giosuè e di Caleb a «non avere paura» (14,9) sono a quel punto vani: il popolo in preda al terrore e alla confusione agisce ormai in modo sconclusionato, finendo per organizzare un attacco in cui viene passato a fil di spada (14,45).

   Il racconto ha molto altro da dire, ovviamente, ma in prospettiva antropologica fa capire quanto le sorti peggiori si decidano non tanto sul campo aperto, quanto nell’accampamento in cui iniziano a circolare voci che – quali che fossero le intenzioni – mutano la saggia preoccupazione in cieca paura.

   In ogni comunità è di fondamentale importanza riuscire a indicare i problemi senza trasformare il rischioso nel terribile: quando si oltrepassa questa soglia spesso le situazioni sfuggono di mano. Per questo è responsabilità di tutti adoperarsi perché la voce data alle preoccupazioni stimoli l’approfondimento e l’incontro, senza lasciare che problemi seri vengano affrontati con la cecità tipica della paura. La possibilità per i diversi di vivere insieme si gioca molto sulla capacità di affrontare le preoccupazioni senza alzare la voce e dare in alte grida, senza innescare quell’agitazione atterrita che – da che mondo è mondo – compatta sì le tribù, ma le induce ad azioni affrettate.

   Nello specifico della “questione gender”, continuo a ritenere che mescolando troppe cose e condensandole in una sola parola-bersaglio (o, viceversa, trasformandola in una parola d’ordine universale) non abbiamo favorito la chiarezza né aiutato a prendere migliore coscienza dei problemi. Abbiamo, piuttosto, alimentato quella forza cieca che genera il tribalismo.

   Evitare di trasformare un «popolo potente» in un «popolo di giganti» significa darsi l’opportunità di riordinare le idee, di approfondire e cogliere le distinzioni, riuscendo ad evidenziare punti di convergenza con un pensiero diverso dal proprio. Tutto questo non è un esercizio sterile ma la risorsa che consente di andare di buon animo incontro agli altri e alle loro proposte senza aver stabilito a priori che senz’altro saremo schiacciati «come locuste» (13,33). Non dico che non potrà accadere, è anche questa un’eventualità: dico però che è sciocco lasciare che la paura trasformi in minacciosi «figli di Anak» quanti invece sono disponibili al confronto e al reciproco aiuto, nel capire meglio e soprattutto nel farsi carico delle fatiche e delle attese di questo nostro tempo. Perché a fare di tutte le erbe un fascio, da qualsiasi parte la si veda, è solo questo ciò che accade: il noi e il loro si accentuano, le distanze aumentano e darsi la mano diventa un’impresa sempre più difficile.

   Le preoccupazioni sul comune futuro sociale non vanno certo dissolte con superficialità, ma credo vadano esplorate nei loro molti aspetti e presentate nella dimensione pubblica senza perdere il senso della misura – tanto delle cose quanto negli avvertimenti – né quella simpatia di fondo per l’umanità che è in tutti e che parla in ciascuno. Nella logica del tribalismo sono precisamente queste componenti quelle che si eclissano più rapidamente sotto la pressione della paura.

   Periremo poi sotto i colpi dei terribili figli di Anak?

   Fare previsioni per noi oggi non avrebbe alcun senso. Però il Libro di Numeri offre ancora un insegnamento a proposito di queste dinamiche tipicamente umane. Molti israeliti persero la vita sulla soglia della terra promessa, ma in quel frangente furono gli Amaleciti e i Cananei a «percuoterli e farli a pezzi» (13,45). L’accesso alla terra buona non fu sbarrato dai terribili giganti, che tanto avevano potuto nei discorsi e nell’immaginario ma che poi neppure comparirono sul campo: fu impedito da gente come loro, di statura ordinaria. Quel che era accaduto è che la paura non aveva dato consistenza ai figli di Anak, ma aveva corroso nel popolo la fiducia nella presenza del loro Dio nella storia: smarrito questo legame essenziale erano venute meno anche le forze per affrontare con saggezza le avversità ordinarie, di certo non insuperabili.

   La tradizione ebraico-cristiana conosce bene, anche per sofferta esperienza, quel che accade nell’animo umano quando le paure prendono il sopravvento. Fosse anche solo per questo – e comunque non mi sembra poco – trovo che questa tradizione debba essere in prima linea nel disinnescare le paure e la deriva dei tribalismi, perché le preoccupazioni di tutti possano essere affrontate meglio e non in sfiduciata solitudine.