GLI AMBASCIATORI E GLI ESULI. A PROPOSITO DI PAPà, MAMMA E GENDER

«Il modo migliore per dialogare non è quello di parlare e discutere, ma quello di fare qualcosa insieme, di costruire insieme, di fare progetti». Per una fortuita coincidenza questa sottolineatura – non nuova – di papa Francesco mi ha raggiunto a Rondine, un piccolo borgo affacciato sull’Arno, a poca distanza da Arezzo, dove da più di qualche lustro si rinnova un’esperienza di convivenza tra giovani studenti provenienti da Paesi diversi, attualmente in guerra tra loro. Per due anni, mentre si studia nelle Università italiane, ciascuno sostiene la sfida della condivisione dello spazio, del tempo e delle cose di ogni giorno con il proprio nemico, con chi vive sulla stessa frontiera ma dall’altra parte. E quel che accade è che giorno dopo giorno – non senza fatica, revisione, tensione – quello che una storia reale, una cultura, o talvolta una propaganda hanno costruito come “nemico” comincia a rivelarsi umano. Il terribile diventa domestico, etimologicamente “di casa”: non fa più paura. E chi è di casa, quello o quella con cui ci si trova di servizio in cucina, con cui si lavano i vestiti, con cui si va a fare la spesa, diventa persino amico. Senza annullare la diversità, ma disarmando – con pazienza – le paure. Perché sono spesso queste ad armare gli uni contro gli altri. Le notizie italiche dell’agitazione che si sta creando attorno al pamphlet di Michela Marzano, Papà, mamma e gender, mi hanno raggiunto qui e riportato rapidamente sul pianeta Terra ed alle inimicizie di cui (forse) dovrò misurare l’intensità nel corso della presentazione che se ne farà a Venezia il 13 novembre.

C’è qualcosa che ha dell’incredibile nel fatto che a Rondine si riesca a ristrutturare il rapporto tra Israeliani e Palestinesi (ma l’elenco potrebbe continuare con tutte le coppie di confine belligerante ospitate) e che a Venezia o a Padova – stando alle notizie – non sia possibile confrontarsi in modo pacato sulle questioni che toccano la sfera dell’affettività, della sessualità e della maturazione dell’identità personale.

La grande animosità che si registra attorno al dibattito sul “gender” dice che nella maggior parte dei contesti c’è un gran darsi da fare proprio nella costruzione del “nemico”, nel dipingerlo animato delle peggiori intenzioni e questa è – da sempre – una grande strategia di attacco: una buona dose di propaganda ci farà sentire leggeri quando caleremo la mano. Ci farà sentire giusti, araldi del Bene. E se sul nostro stendardo sventoleranno le insegne della “famiglia naturale” o quelle della “tolleranza” non farà differenza, sia ben chiaro. In guerra tutti sono convinti di essere le forze del Bene.

Tutto questo ci accade quando abbiamo «paura di compiere l’esodo necessario ad ogni autentico dialogo», quell’esodo senza il quale «non è possibile comprendere le ragioni dell’altro, né capire fino in fondo che il fratello conta più delle posizioni che giudichiamo lontane dalle nostre pur autentiche certezze». L’esodo necessario – davvero un’immagine potente questa di papa Francesco – è il lasciarsi alle spalle la terra nota e rassicurante, per inoltrarsi in quella spesso ignota che è il mondo dell’altro con le sue esperienze, le sue ferite, le sue attese, le sue proteste, la sua visuale. E l’esule – exulem, da ex-, fuori, lontano e solum, terra – non può che portare con sé poche cose, imparando a trovare quel che sostiene la vita proprio nella terra che non conosce.

Nessuno ha mai sostenuto che l’esodo sia una passeggiata.

Esodo è fatica. È quarant’anni di cammino. Necessario, per diventare adulti.

Alle volte, per incontrarsi, occorre che gli uni e gli altri vadano lontano da casa propria, proprio come accade a Rondine, che non è né terra palestinese, né terra israeliana ma italiana, dove la lingua franca è l’italiano, lingua straniera per tutti i residenti.

Oggi una persona mi ha chiesto se noi docenti universitari di Padova intendiamo dire qualcosa sulla negazione degli spazi per la presentazione del libro di Michela Marzano, se stiamo pensando a un comunicato. Mi sono interrogato ancora una volta su quale sia il compito degli “intellettuali”. Difendere delle idee? Difendere la libertà di espressione? Indignarsi? Può darsi. Forse, osservando quel che accade e provando a imparare da Rondine, direi che il compito degli intellettuali è quello di intraprendere prima di altri l’esodo necessario. Senza fingersi apolidi – nessuno lo è mai – per ambire a chissà quale scranno di giudici super partes, ma provando a evidenziare quel che l’alter fa vedere, quel che sembra vada ripensato nella propria prospettiva alla luce del viaggio in terra straniera.

Quel che Michela Marzano fa nel suo libro si avvia in questa direzione: non si dichiara apolide, racconta come si è strutturato il suo sguardo, con l’immediatezza e la franchezza che la caratterizzano. Il suo viaggio, per molti versi, somiglia a quello – coraggioso – di una ambasciatrice preoccupata di certe caricature grottesche del popolo che difende, impegnata nel tentativo di disinnescare le paure di altri popoli. Può bastare per riuscire nell'intento di favorire la convivenza?

Rondine continua, da parte sua, a suggerirmi che la pace solida nasce dalla cooperazione tra i diversi che, per incontrarsi, hanno tutti accettato di essere esuli in terra straniera; Rondine mi suggerisce che l’esule riesce proprio lì dove l’ambasciatore il più delle volte fallisce.

Nel dibattito culturale sull'articolato tema gender farsi ambasciatori senza finire per essere guerrafondai è già difficile. Muovere quantomeno i primi passi dell’esodo necessario che ancora ci attende sarà mission impossible? Inutile dire che mi auguro di no, ma ci sarà modo di scoprirlo.