Non GIUDICARE. A proposito di atteggiamenti

Una delle problematiche che incontro più spesso riflettendo con i professionisti dell’aiuto – Assistenti sociali, Counselor, Coach, Educatori – e con chi si sta formando per diventarlo, è la comprensione di cosa si debba intendere per “atteggiamento non giudicante”. Il Codice deontologico degli Assistenti Sociali ne parla così: «Nell’esercizio delle proprie funzioni l’AS, consapevole delle proprie convinzioni e appartenenze personali, non esprime giudizi di valore sulle persone in base ai loro comportamenti» (Titolo II,9). È una indicazione molto simile alla tradizionale raccomandazione affidata ai confessori: saper distinguere tra il peccato e il peccatore. Una distinzione forse limpida a enunciarla, ma decisamente più complicata da tradurre concretamente. Perché in qualche misura – e questo è il nucleo della questione – noi siamo proprio quello che scegliamo di fare…

 

Ogni volta che chiediamo spontaneamente scusa per qualcosa è come se prendessimo le distanze da quel che abbiamo appena fatto, tant’è che spesso aggiungiamo un «non volevo». Non volevo, come dire che quel che ho appena fatto non esprime quel che sono o che desidero essere, dunque consideriamolo un incidente, a cui – al caso – sono qui per porre rimedio. Se sentiamo di dover esplicitare le scuse e la presa di distanza è perché usualmente diamo per assodato che quel che si fa è riflesso di quel che si è: in qualche misura noi siamo i nostri comportamenti.

Se ripensiamo poi alle volte in cui veniamo ripresi per un nostro modo di fare, e non per un gesto episodico, osserveremo che in quei casi siamo molto meno reattivi nello scusarci, molto meno disponibili a dissociarci da quel che abbiamo fatto o detto. Una critica a un nostro modo di fare abituale la percepiamo sempre come una critica globale al nostro modo di essere: come si fa a dissociarsi da se stessi?

Il problema con cui si misurano molti professionisti e volontari, e che porta a evidenziare l’importanza dell’atteggiamento non giudicante, è proprio l’intreccio tra il fare e l’essere lì dove diventa troppo stretto, lì dove prevale la percezione che distanziarsi da quel che si è compiuto sia, in fondo, impossibile.

Di fronte a questo problema, ad un livello ancora molto superficiale, vediamo sorgere una serie di raccomandazioni, come ad esempio quella di vigilare sul linguaggio: «Hai compiuto un’azione riprovevole» non è lo stesso che dire «sei una persona riprovevole!».

Il legame tra ciò che facciamo e ciò che siamo non è però liquidabile attraverso un restyling del modo di esprimerci; in molte situazioni la delicatezza che gli altri possono riservarci nulla può contro quella percezione forte che ci attesta che, in qualche modo, siamo proprio ciò che abbiamo compiuto. E forse niente altro che questo. Un omicida non diventa mai un ex-omicida, ma neppure una persona con un’esperienza di dipendenza da alcol sente di trovare giustizia in quel prefisso latino, che mentre evidenzia il fatto di esserne venuti fuori, nondimeno non cancella la storia. I fatti compiuti ci rimangono addosso e ci vengono appresso. Possono farlo, occorre aggiungere, in vario modo. Ma alle volte appunto come un fardello schiacciante, impedendo ogni cambiamento.

L’enfasi sull’atteggiamento non giudicante nasce qui, attorno alle storie di autocondanna senza appello, attorno alle vite cristallizzate in un unico gesto drammatico o in un preciso comportamento corrosivo cronicizzato. Nasce davanti alla percezione chiara della necessità di riguadagnare la distanza – spesso, in queste storie, negata – tra la persona e il gesto, tra la persona e un modo di fare che rischia di assorbirla completamente, diventando l’interezza della vita e di una identità.

Non giudicare significa anzitutto non unire la propria voce al gracchiare di quel disco rotto che ripete interiormente: «Tu sei tutto qui, sei tutta qui, nel male che hai fatto. E non c’è altro, non c’è domani».

Se mettiamo a fuoco queste drammaticità comprendiamo che l'atteggiamento non giudicante non può in nessun modo essere inteso come una prospettiva di neutralità morale o di indistinzione tra il buono e il malvagio.

Si parte, invece, proprio dal riconoscimento che c’è del male che segna una storia, ma a valle di questo riconoscimento si prova ad innestare un messaggio di speranza: c’è del male, ma questo male non è il tutto della vita. Non lo è nel passato – anche se magari occorre comprenderlo – e non è necessario che lo sia nel futuro. C’è, in altre parole, posto per altro: c’è posto per una rielaborazione, per una ritessitura o per un cambiamento. C’è possibilità di bene.

Un intervento di aiuto, specialmente se prende forma in una istituzione finalizzata a farsi carico delle diverse forme di fatica o di fallimento, non si attiva cioè mai in un ambiente moralmente neutro, ma sempre a valle di una distinzione tra il buono e il cattivo, una distinzione che la persona ferita per prima avverte, e che chi inizia a starle accanto a sua volta riconosce.

Assumere un atteggiamento non giudicante non può significare suggerire che non è successo niente, che non è grave, che non importa, e questo perché ci si rivolge ad una persona la cui interiorità attesta proprio il contrario: qualcosa di male è successo, lo percepisco come rilevante, mi importa. Piuttosto significa trasmettere qualcosa di simile: siamo d’accordo che c’è del male, ed è possibile che questo male stia avvolgendo la tua vita in spire sempre più strette; tu però sei anche altro rispetto a questo male e insieme possiamo provare a capirlo e a capire cosa di altro puoi fare.

Può essere utile osservare che l’idea di poter rivalutare lo spazio tra l’essere e il fare dinanzi al male che segna la vita non è affatto una conquista contemporanea, ma ha un paio di millenni di anzianità, e la matrice si trova nei Vangeli: davanti alla inclinazione umana a stringere sempre troppo il nesso tra il gesto malvagio e la persona, al punto da rendere la cosa soffocante, Gesù di Nazareth ha sistematicamente opposto proprio un atteggiamento non giudicante.

Uno degli episodi più appariscenti è quello – narrato probabilmente da Luca, ma inserito nel Vangelo di Giovanni – della donna sorpresa in adulterio (Gv 8,1-11). Lì dove tutti, lei per prima, sono pronti a farla diventare la “donna adultera”, facendola tutta coincidere con il suo fare, Gesù pone un quesito radicale: ma voi, cosa dite di voi stessi? Siete disposti a far coincidere in tutto e per tutto il vostro essere con il vostro fare? «Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei» (v. 7).

L’evangelista annota che se ne andarono tutti, «cominciando dai più anziani» (v. 9), e anche per la donna, in quel «Nessuno ti ha condannata? – Neanch’io ti condanno» (vv. 10-11), diventa possibile immaginarsi altrimenti che rinchiusa senza scampo in quel suo modo di vivere. Anche per lei diventa possibile riappropriarsi di un futuro – «d’ora in poi» – caratterizzato anche da un fare altrimenti: «non peccare più» (v. 11).

La prospettiva del non giudicare ci riporta anzitutto a queste sorgenti, e ricorda che chi soccorre non è mai contro la persona: è accanto alla persona, e insieme a questa contro il male che la segna, che la blocca e che lei stessa riconosce. Ma su queste coordinate potrà essere interessante ritornare a riflettere ancora.