Amoris LAETITIA. un rapporto con la "legge" da ritrovare

Come era prevedibile l’esortazione apostolica Amoris Laetitia sta facendo discutere. E, progressivamente, c’è da augurarsi che faccia anche pensare. Si tratta di un testo piuttosto lungo, che invita alla rilettura. Naturalmente non stanno mancando voci frettolose, specialmente nell’esegesi di alcuni punti molto attesi che riguardano le relazioni affettive: più di qualcuno è corso a leggere la sezione dedicata alle situazioni “irregolari”, con l’ansia di ribadire che non c’è nulla di nuovo, nessuna “concessione”, nessuna norma abrogata. C’è invece indubbiamente qualcosa di nuovo, fosse anche solo il fatto che l’aggettivo “irregolari” è posto sistematicamente tra virgolette, a differenza che in Familiaris Consortio. Ma c’è soprattutto qualcosa di antico, e da questo punto di vista l’esortazione si direbbe compiere una manovra molto più ampia, quasi invitando a superare quella miopia che fa dire “tradizione” guardando solo ad alcuni aspetti dell’impostazione morale che si è affermata (anche nella Chiesa) a partire dalla modernità e soprattutto in reazione alla postmodernità.

Cosa ci aspettiamo dalla norma, dalla regola, dalla legge? E qual è il suo ruolo in prospettiva morale e – più estesamente – esistenziale?

Dobbiamo provare a mettere a fuoco questi interrogativi, perché l’impressione è che l’esortazione nel suo complesso ci porti a misurarci con queste domande. E con le nostre più grandi paure, di conseguenza. Paura di non arginare il male, di veder dilagare la logica dell’homo homini lupus. Ma anche paura del disordine, paura di perdere il controllo, di perdere il potere. Paura di perdere presa sul futuro, non avendo più leve su cui agire per farsi ascoltare. A suo modo, la legge risponde (anche) a tutte queste esigenze: uniforma e porta ordine, prescrive e quindi offre parametri per misurare e vigilare, vieta e certo argina molte forme del male.

Di per sé, sia chiaro, la legge è realmente espressione dei nostri sforzi umani di arginare il male di cui ci scopriamo capaci.

Eppure sappiamo anche bene quanto la legge, sfruttata torcendone le intenzioni, diventa strumento di oppressione del più debole, di chi non conosce ogni cavillo e non può ricorrere a un avvocato capace. Sappiamo pure – come lo sapevano gli antichi – che in certe situazioni il bene si preserva o si promuove con la trasgressione della norma, cosa per cui Tommaso d’Aquino ricordava peraltro che ci vuole «particolare perspicacia di giudizio» (Summa Thelogiae, II-II, q. 51 a. 4). Talvolta, se rispettata alla lettera, la legge diventa strumento di male.

Consapevoli di queste derive possibili, che ci rivelano la fragilità del nostro animo, siamo il più delle volte tentati di migliorare la funzione della legge moltiplicandone i dettagli, anziché coltivare quella perspicacia di cui parla Tommaso.

Dove una norma appare troppo generica ci affrettiamo a specificare. Stringiamo le maglie, quasi nel desiderio di raggiungere i singoli casi, sanando le ambiguità. E più si scende per via logico-deduttiva dal generale al particolare, più ci sentiamo rassicurati, perché in fondo questa crescita di dettaglio non solo sembra proteggerci dal male che può venire dall’azione di chiunque, ma ci libera dal peso del discernimento delle situazioni, e ci mette al riparo nel cono d’ombra del rispetto formale delle regole.

Questa è la deriva che imbocca una comunità quando si smarrisce il senso della responsabilità e dell’impegno verso gli altri: al difetto di moralità si risponde con un sovradosaggio di diritto. Perché in un mondo in cui tutto è minutamente codificato, a nessuno è richiesto veramente di agire bene e non male, ma semplicemente di obbedire e di non trasgredire.

In qualche modo anche nella Chiesa cattolica si è forse attivata in tempi recenti una dinamica di questo tipo. Basta guardare la quantità di documenti che sono stati prodotti a partire dal Concilio Vaticano II, dalle encicliche alle diverse note, dottrinali e pastorali, universali e locali, che via via sono state offerte per dettagliare il da farsi in ogni ambito. Spesso anche per dirimere situazioni difficili, vicende singolari, cariche di quelle contraddizioni esistenziali che mettono dinanzi alla controversa figura del “male minore”.

Forse, lo dico in punta di piedi, si è scritto un po’ troppo. Specialmente nel secondo Novecento. Davanti a un mondo che non si lasciava più smuovere – come diceva Hannah Arendt già nel 1965 – dalla promessa di premi eterni o dalla minaccia di castighi eterni, davanti ad una società che non riconosceva più l’autorità di vescovi e preti, ci si è inoltrati non sulla via di un recupero dell’autorevolezza dei testimoni, ma su quella del richiamo all’autorità della legge. Ad un’umanità che chiedeva forse più calore, più prossimità, meno ieratica distanza, si è risposto con più impersonalità, più distacco, più spirito di geometria, parafrasando Pascal. Come ad ammettere e dire: se noi non vi convinciamo più con il nostro modo di vivere, ricordatevi che la legge rimane, perché quella è impersonale. Non dipende da noi. E così sono cresciuti i custodi della legge, impegnati a trarre norme dettagliate per il vivere, ora deducendo dalla legge naturale, ora da quella divina. Nell’illusione che questa fosse la via per far capire alla gente dove stesse sbagliando, in modo che comunque non ci fossero dubbi.

Forse ci stiamo risvegliando da questa ubriacatura di spirito leguleio, che magari ha chiarito qualche dettaglio, ma certo ha avuto come esito quello di perdere il contatto con la vita e quindi con la gente.

Ho calcato le tinte, lo so. Ma è tenendo conto di questo scenario che possiamo cogliere la portata delle annotazioni di apertura di Amoris Laetitia, che fa osservare che «non tutte le discussioni dottrinali, morali o pastorali devono essere risolte con interventi del magistero» (n. 3). Papa Francesco fa notare che «la complessità delle tematiche proposte ci ha mostrato la necessità di continuare ad approfondire con libertà alcune questioni dottrinali, morali, spirituali e pastorali» (n. 2). E accosta parole che, lungi dall’essere antitetiche, rappresentano il vero senso di ogni tradizione, il senso del tradere: fedeltà (alla Chiesa), onestà, realismo e creatività (Cfr. n. 2). Recuperare il respiro dei millenni, guardarsi dalle battaglie personali, ascoltare la realtà delle situazioni, tentare percorsi nuovi.

Meno ansia, dunque, di legiferare, di determinare, di stabilire nuove norme o di cristallizzarne altre già molto, forse troppo, dettagliate. Più tensione di ricerca, più lavoro collegiale, più ascolto delle vicissitudini singolari, più assunzione di responsabilità. Soprattutto: maggiore impegno nel far maturare una più adulta capacità di discernimento in tutti.

Questa prospettiva – lo accennavo in apertura – non è affatto uno strappo in avanti. Piuttosto restituisce alla legge il suo significato morale più antico: quello di una parola esigente, colta anzitutto interiormente, capace di metterci di fronte a noi stessi per come siamo e al cammino che ancora ci attende. Una parola in grado di metterci in movimento, di stimolarci al cambiamento. Una parola che certo rivela il nostro limite, ma per far sorgere la domanda essenziale: come e soprattutto con quali forze procedere altrimenti?

Chi ha sintetizzato in modo magistrale questa prospettiva è proprio Tommaso d’Aquino, a cui Amoris Laetitia ricorre con molta decisione.

Proprio per Tommaso la legge è anzitutto una buona provocazione per la coscienza. La legge, nella molteplicità delle sue forme (naturale, civile, divina…), è la parola interiore che ci invita a misurarci con quello che ancora non siamo, con il meglio che ci attende. Non si tratta di un imperativo che chiede sic et simpliciter adempimento, ma piuttosto di una messa alla prova che innesca la lotta interiore. Le provocazioni che ci raggiungono da fuori – questa la definizione tecnica di Tommaso (ST, I-II, q. 90, pr.) –, se riescono a toccarci, fanno emergere le nostre resistenze, stanano le nostre abitudini, le costringono a prendere parola dentro noi stessi. Fanno così sorgere il conflitto interiore che può portare al cambiamento, ad un fare altrimenti che inizia a rivelarsi possibile.

Proprio Tommaso sapeva bene che l’esito migliore di questa mobilitazione riflessiva è quello di condurci davanti all’interrogativo: con quali forze? E per questo ha scritto che «Dio ci istruisce con la legge e ci soccorre con la grazia»: quasi a dire che il senso del misurarsi con il proprio male e con la prospettiva diversa del bene stia nell’uscire dalla pretesa di essere autosufficienti – spesso una assurda prigione –, e nello scoprire che c’è aiuto per noi, quale che sia il punto da cui ricominciamo a prendere in mano la nostra storia. C’è aiuto per compiere i passi che abbiamo intravisto, c’è motivo di sperare e di incamminarsi.

Mi pare che Amoris Laetitia inviti a guardare in questa direzione. Non butta via la legge, suggerisce forse che di norme al dettaglio ne abbiamo a sufficienza e che dobbiamo ora imparare a ricollocarle in una prospettiva più spirituale e meno giuridica. Ed è, probabilmente, l’unica strada per restituire anche alla morale evangelica quel respiro che tante preoccupazioni novecentesche le hanno tolto.