L'orrore di Nizza e l'illusione dell'estraneità

Dopo i fatti tragici di Nizza si rinfocola il dibattito sugli intrecci tra terrorismo, disagio e forme di radicalismo religioso. Questo dibattito chiede riflessioni che fatichiamo a sostenere per la loro complessità: il dolore dei colpiti è terribilmente semplice da comprendere, mentre le trame che trasformano gli uni o gli altri in efferati aggressori lo sono molto di meno. L’interrogativo “perché tutto questo?” può essere accostato in qualche modo?

La nostra reazione al male, a quel che fa male, è molto essenziale: cerchiamo di allontanarci. È così sul piano fisico, ma anche su quello morale: dal male inflitto ad altri tendiamo a dissociarci in molti modi, ora sostenendo che era in vista di un bene, ora dicendo che “non volevamo”. Con il male, insomma, non vogliamo avere a che fare.

I mali che fatichiamo a spiegarci – come quelli accaduti a Nizza e in precedenza altrove – attivano in noi la stessa dinamica: sentiamo l’urgenza di prenderne le distanze, dicendo anzitutto a noi stessi che noi non siamo così, che siamo di altra pasta. Noi siamo diversi. Il che potrebbe essere anche vero, ma come dimostrarlo? Questa dimostrazione è in effetti molto difficile. Se indaghiamo sui profili delle persone che compiono materialmente gesti così efferati scopriamo che questa diversità non è affatto così lampante.

L’uomo di Nizza era una persona che soffriva di depressione, facile alla collera, alle prese con la separazione dalla moglie, catturato nelle maglie di una sessualità compulsiva, violento ma insieme anche ligio nel rispettare l’obbligo di firma settimanale dovuto ad un precedente arresto per lite.

Non occorre avere precedenti penali per essersi sentiti delusi e senza speranza, per provare la frustrazione del non riuscire a recuperare una relazione, per pensare di essere il bersaglio di una sorte assurdamente avversa, per rifugiarsi in qualche forma distorta di consolazione a buon mercato. Tutti attraversiamo nella vita passaggi di questo tipo, ma sapremmo dire che cosa impedisce che l'una e/o l'altra di queste esperienze si radicalizzino fino a corrodere ogni buona qualità umana, fatta salvo la lucidità che occorre per progettare gesti così scientificamente intrisi di male?

Dobbiamo provare a rispondere a questa domanda se non vogliamo essere superficiali.

Dobbiamo provare a mettere a fuoco dove si radichi quella diversità che, colti dall'orrore, ci sentiamo di dichiarare a noi stessi e al mondo.

Esiste naturalmente una risposta semplicistica, e anche in questo caso qualcuno l’ha tentata: l'uomo era un integralista islamico. Come se due settimane di indottrinamento intensivo (così le notizie ad oggi) bastassero a spiegare un gesto. È una risposta che non spiega ma - questo è il punto - illusoriamente rassicura, perché se noi non siamo islamici, e se basta un tratto identitario-culturale a spiegare la violenza, allora è chiaro che in noi, non essendo islamici, quel male non attecchirà. Così possiamo andare avanti senza preoccuparci troppo di noi stessi e concentrandoci piuttosto nel chiedere alle autorità maggiori sforzi in fatto di sicurezza. Sicurezza che sotto sotto coinciderà con una richiesta di allontanamento di quelli – e non siamo noi! – culturalmente, religiosamente o ideologicamente capaci di ogni efferatezza.

Se invece vogliamo prendere la cosa più seriamente non c’è altra via se non quella di sostare davanti alla domanda provocatoria: che cosa ci farà personalmente diversi se mai anche per noi arriverà il tempo della fatica, della depressione, del tradimento, dell'impoverimento, della frustrazione dei desideri, della cattiva sorte? Che cosa ci consentirà di elaborare diversamente la rabbia, di non abbandonarci alla violenza, di coltivare ancora speranza e di non isolarci nella disperazione?

Le trame profonde che trasformano giorno dopo giorno in aggressori sono il rovescio di quelle che trasformano - sempre day-by-day - in uomini e donne di pace: non sono semplici né immediate le prime così come non lo sono le seconde. Non riusciremo a comprendere e contrastare meglio le prime se non acquisiremo maggiore consapevolezza delle seconde.

Il male – come ricorda l’antica saggezza del libro della Genesi (4,7) – è accovacciato alla porta di ciascuno, imparare a dominarlo in se stessi è un'impresa anzitutto personale, un fatto di continua formazione e di cura interiore. Pensarsi culturalmente immuni dalla tentazione della violenza distruttrice (e con questo dispensati da qualsiasi fatica introspettiva) è una grande illusione, da cui dovremmo iniziare a guardarci con maggiore consapevolezza. E, forse, dovremmo anche iniziare a considerare che proprio l'analfabetismo spirituale rischia di essere la grande fragilità ignorata della società occidentale.