Il "nodo" della continenza e i passi di una riflessione nella chiesa.

In una recente intervista il cardinale Caffarra ha proseguito la discussione sulle novità di Amoris Laetitia riguardo gli sposi cristiani in situazione di separazione e di nuove unioni, ponendo la questione in questi termini: «Il problema nel suo nodo è il seguente: il ministro dell’eucaristia (di solito il sacerdote) può dare l’eucaristia a una persona che vive more uxorio con una donna o con uomo che non è sua moglie o suo marito, e non intende vivere nella continenza?» E prosegue: «Nessuno per altro mette in questione che Familiaris consortio, Sacramentum unitatis, il Codice di diritto canonico, e il Catechismo della Chiesa cattolica alla domanda suddetta rispondano No. Un No valido finché il fedele non propone di abbandonare lo stato di convivenza more uxorioAmoris laetitia ha insegnato che, date certe circostanze precise e fatto un certo percorso, il fedele potrebbe accostarsi all’eucaristia senza impegnarsi alla continenza? Ci sono vescovi che hanno insegnato che si può. Per una semplice questione di logica, si deve allora anche insegnare che l’adulterio non è in sé e per sé male».

Il punto nodale del cardinale è il tener ferma la prescrizione della continenza. Questa prescrizione è in effetti l’elemento costante che compare nei documenti ecclesiali dagli anni Ottanta ad oggi, scomparendo però in Amoris Laetita. Nei documenti del magistero di riferimento, tuttavia, il significato di questa indicazione cambia in modo piuttosto marcato, rendendola per certi versi un controsenso. Amoris laetitia, impostando il discorso in modo molto più centrato sul percorso delle persone verso la riconciliazione che non sulla suddetta prescrizione come conditio sine qua non universale, risolve (anche) il problema dell’assurdo antropologico che si è venuto a creare. Queste sono le tesi. E provo ad argomentarle in una riflessione più lunga del solito, a titolo di research worker, come suggeriva Maritain.

 

Domande e risposte

 

Come tutti sappiamo bene, lo sviluppo di molte discussioni dipende anche dalle domande da cui si parte. Caffarra vuole un sì o un no (e offre ragioni per il no) sul nodo specifico dell’accesso alla comunione eucaristica senza il rispetto della prescrizione della continenza. Credo che la questione si possa affrontare in modo più completo e coerente rispetto all’eredità della piccola tradizione di questi ultimi 40 anni partendo da un altro quesito, con cui interrogare proprio i documenti: la Chiesa cattolica propone dei percorsi di riconciliazione alle persone che dopo un divorzio hanno contratto seconde nozze (o convivono more uxorio) violando – come evidenzia anche il Catechismo – «il segno dell’Alleanza e della fedeltà a Cristo»? Se sì, quali sono ad oggi?

Eventuali “condizioni” hanno senso nel quadro di un “percorso”.

 

Un’esigenza indilazionabile

 

L’ormai nota prescrizione compare nel 1980 nell’Omelia di Giovanni Paolo II alla chiusura del V Sinodo dei Vescovi, che aveva affrontato la situazione dell’istituto familiare, sempre con un occhio in fondo privilegiato al Vecchio Continente e alla cultura occidentale. L’introduzione del divorzio, a partire dagli anni Sessanta ma poi diffusamente dagli anni Settanta – in Italia e altrove – aveva portato alla luce non solo il collasso di molte coppie, ma anche una tensione a ricomporne di nuove. La precedente assenza della possibilità civile delle seconde nozze aveva fatto a lungo da velo ad una richiesta esistenziale di riconoscimento delle relazioni di tipo sponsale sorte dopo il primo (e allora anche civilmente unico) matrimonio. A lungo cioè si era potuto pensare (e forse illudersi) che alla bassa evidenza di queste richieste – le nuove coppie che sfidavano la società vivendo ostentatamente more uxorio difficilmente erano visibili nelle comunità cristiane – potesse corrispondere un consenso diffuso sul fatto che, per chi attraversava delle difficoltà, la conclusione estrema del collasso delle prime nozze rimanesse la separazione. Oltre a questo, nessun altro scenario. In altre parole: il tema delle seconde nozze come adulterio non poteva esistere semplicemente perché non esistevano seconde nozze civili, non perché non esistessero l’adulterio o il desiderio di dar vita a nuove unioni. Tuttavia, nel cono d’ombra di questa impossibilità giuridica civile si è, per così dire, coccolata a lungo l’illusione che reggesse anche un interdetto morale rispetto all’avvio di una nuova unione, almeno tra i battezzati.

La “diga morale” tra separazione degli sposi e formazione di successive nuove convivenze avrebbe davvero tenuto?

Negli anni Ottanta l’illusione era ormai svanita, e anche la Chiesa cattolica iniziava a ritessere il filo di un problema non nuovo – quello appunto delle seconde unioni dei battezzati – ora però diventato numericamente rilevante.

Si trattava di indicare semplicemente delle condizioni per accedere alla comunione oppure di proporre dei percorsi di riconciliazione, che potessero giungere anche al segno della mensa eucaristica?

L’impressione, stando ai testi, è che l’idea del “percorso” sia stata quella principale fin dall’inizio.

 

Anni Ottanta, Chiusura della V Assemblea generale del Sinodo dei Vescovi e Familiaris consortio

 

Nell’omelia del 25 gennaio 1980 in occasione della chiusura del Sinodo, Giovanni Paolo II aveva dedicato un passaggio preciso rivolto ai battezzati che, avendo contratto seconde nozze – solo per semplicità: i “divorziati-risposati” –, desideravano ritornare nella pienezza della comunione; queste persone, aveva detto,

 

«possono ricevere, se ne ricorrano le condizioni, il sacramento della penitenza e quindi la comunione eucaristica, quando sinceramente abbracciano una forma di vita, che non contrasti con la indissolubilità del matrimonio - cioè quando l’uomo e la donna, che non possono soddisfare l’obbligo della separazione assumono l’impegno di vivere in piena continenza, cioè di astenersi dagli atti propri dei coniugi» (nr.7).

 

La Familiaris consortio proseguiva a un anno di distanza recependo e citando testualmente questa indicazione, con lievissime differenze di contorno:

 

«La riconciliazione nel sacramento della penitenza - che aprirebbe la strada al sacramento eucaristico - può essere accordata solo a quelli che, pentiti di aver violato il segno dell'Alleanza e della fedeltà a Cristo, sono sinceramente disposti ad una forma di vita non più in contraddizione con l'indissolubilità del matrimonio. Ciò comporta, in concreto, che quando l'uomo e la donna, per seri motivi - quali, ad esempio, l'educazione dei figli - non possono soddisfare l'obbligo della separazione, “assumono l'impegno di vivere in piena continenza, cioè di astenersi dagli atti propri dei coniugi”» (nr. 84).

 

Che si tratti di un “percorso” si intuisce da molti elementi, forse il più evidente è la maggiore distensione che nell’Esortazione riceve il passaggio dalla penitenza al reintegro pieno nella comunione. Lì dove il papa poneva un breve “quindi”, il documento rallentava il processo con un condizionale all’interno di un inciso: la riconciliazione «aprirebbe la strada» alla mensa eucaristica.

Qual era però il percorso nella sua completezza? Non ci sono dubbi: l’esito del percorso è «soddisfare l’obbligo della separazione» di questa nuova coppia. L’ormai nota prescrizione si inserisce così all’interno di questo percorso, riferendosi ad un “caso” molto specifico, che è quello di una decisione ormai presa per la separazione, ma materialmente e pro tempore non attuabile. Come dire: l’attenzione della Chiesa andava a questo “nel frattempo”, il frattempo dell’educazione dei figli, che rimane l’unico esempio consistente e chiaramente a termine aggiunto in Familiaris consortio a chiosa dell’indicazione di Giovanni Paolo II. L’attenzione andava a questo caso particolare, dando in fondo per ben inteso che la via maestra verso il ritorno alla mensa eucaristica era la pronta separazione a tutti gli effetti. Si provava dunque a immaginare che cosa potesse esprimere il senso di una separazione decisa e esistenzialmente avvenuta, nonostante questa non potesse ancora realizzarsi materialmente.

Siamo, ricordiamolo almeno per l'Italia, a pochi anni dal referendum sul divorzio e "tecnicamente" non possono esistere che seconde nozze con storie coniugali molto brevi e, al caso, con figli molto piccoli. Eppure la Chiesa già si sporge con una attenzione speciale verso queste persone con le loro vite proponendo un percorso ad hoc.

Per capire però fino in fondo il senso della prescrizione all’interno di questo percorso “speciale” occorre aggiungere qualche semplice annotazione di carattere antropologico.

 

Relazione sponsale e unione sessuale

 

Ad ogni corso prematrimoniale i formatori insistono su un dato antropologico che in effetti dovrebbe essere evidente: l’unione sessuale è un gesto così capace di esprimere l’intimità di una relazione, al punto da portarsi appresso anche l’attesa di una esclusività a tempo indeterminato, che poi avvolge e colora una gamma molto ampia di gesti. Tu sei per me e io per te come nessun altro per sempre. A meno di non ridurre l’umano a una meccanica del piacere sensuale, da qui tutti partiamo. Misurandoci ben presto – idealmente, concretamente, educativamente… – sulla grandezza dell’orizzonte e sulla capacità di tendere questo arco di donazione ordinaria e reciproca per tutti i giorni della vita. La fedeltà è quella tenuta del nostro desiderio di donarci in via esclusiva per sempre, facendo di noi stessi qualcosa di unico per l’altro/a. L’unione sessuale si inserisce allora in una storia, che è fatta di infiniti altri gesti ordinari di donazione “in esclusiva”, e ben si presta a diventare non solo l’emblema, ma anche (salvo difficoltà di altro tipo) e più direttamente il sintomo della salute e della consistenza della relazione stessa.

Qui è interessante osservare che le coppie che attraversano una crisi che sta evolvendo verso una estraneità reciproca sempre più forte sospendono ben presto proprio l’intimità sessuale, perché questa unione – ovviamente lì dove è libera e non segnata da violenza – è un’espressione fortemente intuitiva di intesa, che non riesce a coesistere (se non a prezzo di penose finzioni) con una condizione di lontananza reciproca o di tensione. Figuriamoci poi se di avversità.

In prospettiva antropologica relazione di tipo sponsale e unione sessuale sono, nel bene e nel male, legate a doppia mandata: simul stabunt et simul cadent.

Nel percorso “speciale” immaginato in Familiaris consortio per chi si trova impossibilitato a dare esecuzione alla separazione, questa evidenza antropologica è pienamente rispettata nella sua sostanza, ma viene utilizzata in modo rovesciato.

Riconoscendo che nella fisiologia della sponsalità l’interruzione dell’intimità sessuale è sintomo di una tensione e che la sua revoca definitiva equivale ad una separazione avvenuta, si fa leva su questo riconoscimento, trasformandolo però in una sorta di caparra. Così, pur in presenza di molti dei modi del vivere sponsale (la coabitazione, la cura condivisa dei figli etc.) – che in se stessi esprimerebbero una volontà di mantenere e non di interrompere la relazione – l’assenza dell’intimità sessuale basta per la Chiesa per riconoscere a queste persone di aver intrapreso il percorso di separazione, di aver già sciolto il more uxorio e quindi di poter in un certo senso anticipare i passi di rientro pieno nella comunione, precisamente in quanto «sinceramente disposti ad una forma di vita non più in contraddizione con l’indissolubilità del matrimonio».

Vale la pena di osservare che questo percorso “speciale” non può essere inteso come una concessione a chi desidera mantenere la nuova unione. Che la nuova unione vada interrotta è negli anni Ottanta fuori discussione. La specialità del percorso consiste nel tener conto delle “cause di forza maggiore” che impongono il perdurare della convivenza, offrendo ai fedeli la possibilità di avanzare comunque nella riconciliazione, posto sempre che si sono già decisi per la cessazione di un modo di vita sponsale. È una possibilità però ancor più ardua del percorso ordinario di chi smette la convivenza soddisfacendo da subito l’«obbligo di separazione». Vale il detto: lontano dagli occhi, lontano dal cuore. La decisione di separarsi è certamente difficile e comporta una lotta contro il desiderio, ma, una volta presa, sostenerla per giunta nel perdurare della vicinanza fisica è ancora più difficile.

Dunque, riepilogando: inizio anni Ottanta, un unico percorso di riconciliazione, ovvero la separazione della nuova coppia. Nel percorso una variante speciale, pensata per le situazioni in cui la separazione materiale va ritardata per ragionevoli e seri motivi. Nella variante speciale una prescrizione, che può essere compresa – con piena coerenza dal punto di vista antropologico – nella figura della “caparra” o comunque del segno che attesta l’avvenuta separazione morale (diciamo così, per capirci).

 

Anni Novanta, Catechismo della Chiesa Cattolica

 

Passano dieci anni, è il 1992 ed esce il Catechismo della Chiesa Cattolica rinnovato dopo il Concilio Vaticano II. Il tema delle coppie formatesi dopo un divorzio viene ripreso, con qualche variazione però. Al nr. 1650 si ribadisce che aver contratto seconde nozze «oggettivamente contrasta con la legge di Dio» e che da questo discende che i battezzati che hanno creato una nuova unione «non possono accedere alla comunione eucaristica per tutto il tempo che perdura tale situazione». Ritroviamo quindi anche le stesse indicazioni di Familiaris consortio:

 

«La riconciliazione mediante il sacramento della penitenza non può essere accordata se non a coloro che sono pentiti di aver violato il segno dell’Alleanza e della fedeltà a Cristo, e si sono impegnati a vivere in una completa continenza».

 

Quel che è caduto è il richiamo al contesto di questa prescrizione. Non troviamo più esplicitato il fatto che “il percorso” è da intendersi come quel processo che conduce alla separazione della nuova coppia, né è altrettanto evidente che la prescrizione della continenza si inserisca nella logica del percorso speciale per chi ha deciso per la separazione ma ne è materialmente impedito pro tempore. È sottinteso? È davvero così chiaro?

Troviamo invece una serie più ricca di indicazioni che riguardano evidentemente lo stato di vita di coppie in cui la decisione è quella di proseguire la propria storia nella seconda unione, indicazioni che peraltro riprendono Familiaris consortio: invito all’ascolto della Parola, all’impegno nella carità etc. (nr. 1651).

L’impressione è che in qualche modo, senza il richiamo ravvicinato all'obiettivo della separazione, la prescrizione della continenza inizi a scivolare fuori dal percorso "speciale”, per candidarsi a diventare una condizione più generale, posta alle coppie di battezzati risposati civilmente che non intendono effettivamente separarsi, ma che continuano a cercare e chiedere un percorso di riconciliazione.

Non dico che questo scenario sia già aperto nelle intenzioni redazionali del Catechismo, ma si inizia a cogliere che chiede una più attenta considerazione la situazione di quanti – come dirà poi Amoris Laetitia – «vivono una seconda unione consolidata nel tempo, con nuovi figli, con provata fedeltà, dedizione generosa, impegno cristiano, consapevolezza dell’irregolarità della propria situazione e grande difficoltà a tornare indietro senza sentire in coscienza che si cadrebbe in nuove colpe».

Siamo, in fondo, negli anni Novanta e possono esserci ormai storie di seconde nozze con diversi anni di vita insieme dopo un divorzio e con figli grandi.

 

2007, Sacramentum Caritatis

 

La Sacramentum Caritatis (che essendo l’Eucarestia è anche Sacramentum unitatis come riporta nell’intervista Caffarra, ma non nel titolo dell’Esortazione di Benedetto XVI) riprende ancora il Catechismo e l’ormai nota prescrizione, ma ora è chiaro che il quadro è cambiato:

 

«Là dove non viene riconosciuta la nullità del vincolo matrimoniale e si danno condizioni oggettive che di fatto rendono la convivenza irreversibile, la Chiesa incoraggia questi fedeli a impegnarsi a vivere la loro relazione secondo le esigenze della legge di Dio, come amici, come fratello e sorella; così potranno riaccostarsi alla mensa eucaristica, con le attenzioni previste dalla provata prassi ecclesiale» (nr. 29).

 

Qui compare il tema di una relazione da vivere e viene acquisito il riconoscimento di una irreversibilità esistenziale di molte nuove unioni. È a questa condizione che ora ci si rivolge, una condizione ben diversa da quella impossibilità pro tempore a dar corso ad una separazione già decisa (e in una fase tutto sommato iniziale della nuova unione).

Non credo sia ammissibile una ambiguità a questo proposito: non è a tema il percorso per chi aveva maturato la decisione di separarsi e poteva senza seri motivi di impedimento percorrere quella via per la riconciliazione. Quel percorso rimane aperto e lineare e molti possono trovarsi in quelle condizioni. Ma qui non si tratta neppure di allestire una macroscopica finzione, immaginando che tutte le coppie di divorziati-risposati che chiedono un percorso abbiano deciso in cuor loro per la separazione ma siano impossibilitate a darvi seguito da chissà quali avversità di ordine materiale, diverse dall’attenzione educativa verso i figli. Qui ormai si tratta – come appunto si legge nel documento – di individuare un percorso che consenta ai battezzati divorziati-risposati di «vivere la loro relazione», tracciando un itinerario di riconciliazione che possa ricondurre alla mensa eucaristica perdurando quella relazione, che rimane innegabilmente di tipo sponsale.

L’esigenza di un nuovo percorso – che, ripeto, proprio per la diversità delle condizioni riconosciute, non toglie validità al precedente – se non è maturata sta maturando. Siamo ormai, si può dire, nella logica plurale: esistono percorsi di riconciliazione, non solo quello codificato negli anni Ottanta.

Nell’apertura di questa “variante di valico” transita anche la nota prescrizione della continenza. Che ora, mutata la condizione a cui si guarda, inevitabilmente vede alterato il suo senso antropologico iniziale: se non è più caparra e segno anticipatorio – dal momento che cade non più su chi ha deciso per la separazione, ma su quanti chiedono o comunque ritengono di mantenere la nuova durevole unione – che cosa diventa?

Le possibilità sono in effetti due: o diventa una sorta di esercizio spirituale oppure rimane, come segno esistenziale, un assurdo antropologico. Bisogna ricordare bene il legame a doppia mandata richiamato sopra: l’unione sessuale è sintomo di una relazione in (sempre relativa) buona salute, viceversa la sua interruzione è sintomo di separazione e di sopraggiunta estraneità reciproca. Chiedere ad una coppia a cui si è riconosciuta la condizione di irreversibilità – cioè, al netto di impietose finzioni, l’esistenza di una relazione durevole con l’intenzione di confermarla – di ospitare il segno esistenziale che attesterebbe l’esatto contrario è semplicemente senza senso.

Per questo sostengo che l’«assunzione dell’impegno» della completa continenza, sensatissima nel percorso “speciale” posto negli anni Ottanta da Giovanni Paolo II, diventa una contraddizione nel momento in cui viene meccanicamente trasportata all’interno di altri (eventuali) percorsi di riconciliazione, pensati – o meglio da pensare – per quanti non hanno più come orizzonte quello della revoca della nuova unione.

Benedetto XVI, come più di qualcuno ha fatto notare, ha scritto che «la Chiesa incoraggia a-», modificando la perentorietà di quella richiesta di «assunzione di impegno» alla completa continenza degli anni Ottanta. L’ottica dell’incoraggiamento evidenzia certamente la dimensione del percorso, tuttavia bisogna ammettere che rimane irrisolta una ambiguità. Chiediamoci: nella prospettiva della riconciliazione, le coppie in questione sono incoraggiate a soddisfare la richiesta di separazione, cioè a maturare quella reciproca distanza e tutte quelle forme di estraneità che revocano la forma di vita sponsale, ma ora solo più progressivamente? Oppure sono incoraggiate a compiere un esercizio spirituale che le aiuti, pur mantenendo e curando la nuova e durevole relazione, a maturare una coscienza più profonda della violazione «del segno dell’Alleanza e della fedeltà a Cristo» che le loro vite hanno conosciuto?

Nel primo caso si tratterebbe di un “ammorbidimento” del percorso “speciale” degli anni Ottanta, con il riconoscimento non tanto della consistenza della nuova relazione dentro cui lavorare ma della titubanza a decidersi per interromperla, una debolezza di cui tenere conto e per cui fare qualche sconto. Questa prospettiva non mi pare convincente, perché genera esattamente quella confusione che molti denunciano: si ammetterebbe cioè che in quel “nel frattempo” (che qui sempre si continua a supporre che intercorra in vista del soddisfacimento dell’obbligo di separazione) non sono le oggettive situazioni esteriori il problema, bensì una intenzionalità ondeggiante, un “proviamoci però non ne siamo convinti”, a cui rispondere con un più blando “incoraggiamento a-”, disponibili a chiudere un occhio insomma, a seconda della larghezza di manica del confessore.

Nel secondo caso invece non si tratterebbe di un “ammorbidimento”, ma appunto di un altro percorso, in cui diventa significativo proprio l’esercizio spirituale, che aiuta a entrare più radicalmente in contatto con la verità della propria storia, con la ferita che porta con sé e con lo sguardo di misericordia di Dio. È chiaro però che l’esercizio spirituale – quale che sia, compresa l’astinenza dall’unione sessuale – non può essere né una prescrizione standard né qualcosa di permanente.

 

2016, Amoris laetitia

 

Sul capitolo ottavo di Amoris laetitia è stato scritto già moltissimo. Quanto al tema specifico mi limito a far notare che riferendosi alle persone che hanno contratto seconde nozze l’espressione cauta che ricorre è anzitutto «situazioni dette “irregolari”», segno non certo di minimizzazione delle difficoltà ma di prudenza nel fare di tutte le erbe un fascio. Proprio esplicitando questa diversità di situazioni viene richiamato il passo di Familiaris consortio che riconosce l’impossibilità di «soddisfare l’obbligo della separazione»:

 

«I divorziati che vivono una nuova unione, per esempio, possono trovarsi in situazioni molto diverse, che non devono essere catalogate o rinchiuse in affermazioni troppo rigide senza lasciare spazio a un adeguato discernimento personale e pastorale. Una cosa è una seconda unione consolidata nel tempo, con nuovi figli, con provata fedeltà, dedizione generosa, impegno cristiano, consapevolezza dell’irregolarità della propria situazione e grande difficoltà a tornare indietro senza sentire in coscienza che si cadrebbe in nuove colpe. La Chiesa riconosce situazioni in cui “l’uomo e la donna, per seri motivi - quali, ad esempio, l’educazione dei figli - non possono soddisfare l’obbligo della separazione”» (nr. 298).

 

Qui si percepisce il respiro più ampio con cui viene recepito il documento precedente, e proprio grazie alla distensione dell’esemplificazione dei seri motivi: ora si capisce bene che in diversi casi difficilmente questi possono essere temporanei, concepibili come un fattore al momento inaggirabile ma comunque solo di ritardo nel percorso verso la separazione. Ora i seri motivi sono esattamente ed esplicitamente tutto ciò che dà consistenza a quella “relazione da vivere” di cui è comparsa la traccia anche in Sacramentum Caritatis: infatti alla presenza dei figli si uniscono – differentemente caso per caso – i diversi tratti di valore della relazione di intimità (durata, fedeltà – dunque tempo trascorso –, dedizione – a chi, se non reciproca? –, impegno, coscienza del peso delle fratture che si hanno alle spalle). Lì dove si danno questi tratti – che sono la sostanza antropologicamente buona di una relazione di tipo sponsale, a cui non possono che accompagnarsi i gesti sintomatici che la caratterizzano – il comprometterli è quel che in coscienza è avvertito come il cadere «in nuove colpe».

Riconosciuto in tutta chiarezza il dilemma del che fare in queste situazioni – individuabili non in astratto ma solo caso per caso – le possibilità non sono poi tante.

O si ribadisce che l’unica via di riconciliazione e reintegro nella comunione piena è quella che conduce come esito alla separazione (unico percorso tipico in Familiaris consortio, con relativa variante speciale). E qui rientra sensatamente, nel percorso "speciale",  la prescrizione della completa continenza, come caparra di una decisione presa. Ma per le situazioni di cui sopra siamo allo scacco matto. E non è questa la logica della Chiesa.

Oppure ci si interroga su quali possano essere i diversi percorsi sensati di riconciliazione proprio per queste diverse situazioni, avendole riconosciute come irreversibili e portatrici quantomeno di alcuni dei segni tipici dell’unione sponsale.

Amoris laetita incoraggia a procedere in quest’ultima direzione. E forse non a caso per la prima volta dagli anni Ottanta ad oggi omette il richiamo esplicito e testuale alla questione della continenza come conditio sine qua non per tutte le condizioni esistenziali. In questo modo non toglie soltanto un assurdo antropologico ma anche e forse soprattutto un facile alibi per liquidare rapidamente in confessionale i battezzati che chiedono un cammino: in fondo avere un unico parametro da verificare per evadere una pratica – continenza sì/continenza no – solleva dalla fatica di accompagnare le persone in una ben più ampia consultazione della vita, dei passi via via compiuti, dei frutti dello Spirito eventualmente emersi, dei prossimi movimenti di conversione a cui indirizzarsi e degli esercizi spirituali più opportuni per sostenerli.

Il prezzo vero della revisione di questa prescrizione (lì dove diventa una contraddizione con la vita di relazione riconosciuta) non è affatto la rinuncia alla dottrina e il dichiarare «che l’adulterio non è in sé e per sé male». Il prezzo vero è il tempo e la cura che i pastori dovrebbero dedicare all’ascolto delle vite particolari e all’accompagnamento spirituale delle persone. Questa, in un mondo frenetico come il nostro, è la vera posta che manca all’appello – anche incolpevolmente, per seri motivi e per cause di forza maggiore, sia chiaro – e senza la quale la logica del “percorso” e degli esercizi spirituali che possono sostenerlo e rinforzarlo cede rapidamente il posto a quella della fugace verifica delle condizioni per attraversare una dogana.