A proposito di parole e parolacce

Solo una decina di giorni fa ha fatto discutere lo stile della conduzione di Paolo Ruffini dell’evento con le Scuole organizzato da Parole O_Stili: molti hanno trovato fuori luogo l’intercalare continuo con parolacce – non metto il termine tra virgolette, perché il suffisso peggiorativo ha pienamente senso –, l’attore si è difeso già dal vivo, dicendo che «creano empatia» e in seguito l’ideatrice dell’iniziativa, Rosy Russo, ha diffuso un post di scuse (delicato e coraggioso, che vale la pena di leggere proprio per imparare un po’ di stile). Ora è la volta di Flavio Insinna, colto in una serie di improperi fuori onda non proprio esaltanti, su cui Striscia sta insistendo in modo non limpido. I due casi, accostati, forse aiutano a capire meglio dove stia il nodo della questione.

Che le parolacce creino empatia è un mito da sfatare, vorrei chiarirlo subito. L’empatia è anzitutto una questione di ascolto, non di modo di esprimersi. È un percepire il mondo dell’altro per capirlo, per sentire il suo modo di porsi, non certo per replicarlo specularmente – mandando in onda dosi massicce di “c…o”, “m…a” etc. –, convinti di far leva sul micro-messaggio “sono dei vostri perché parlo come voi”. In una relazione autentica quel che fa camminare è avvertire che l’altro, specialmente se è un adulto, è “per me”, "con me", non “come me”. E allora anche una differenza di linguaggio, non per forza teorizzata, non bacchettona né enfatizzata, è importante. Lo scarto può far pensare. Non è detto che lo faccia, chiaro. Ma apre la possibilità di incontrare una differenza e di esaminarla. Se un adulto non usa un certo sproloquio non è perché lo ignori. È perché per qualche motivo sceglie di non utilizzarlo, sceglie – nel mondo omogeneizzato degli stili triviali – di ritagliarsi uno spazio di resistenza e di alternativa seria nei modi di interagire.

Nel linguaggio tutte le risorse espressive che non utilizziamo abitualmente finiscono fuori mano. Ci sono parole che diventano desuete, culturalmente lo sappiamo bene. Scegliere per se stessi di collocare fuori mano alcune precise parole – cosa che si fa solo evitando di impiegarle ricorsivamente – è sforzarsi di trovarne altre, di cercare modalità diverse per esprimere questa o quella percezione o idea. È una opzione stimolante e impegnativa, perché include anche la ricerca di modi alternativi di esprimere sentimenti forti, tesi, conflittuali. La scelta di dribblare il turpiloquio nelle situazioni ordinarie e meno cariche allena esattamente ad avere a disposizione parole migliori proprio nei frangenti più critici.

In questo senso ci aiuta il caso di Insinna. Non entro nel merito della manovra di Striscia, che – ripeto – non mi sembra limpida. Il conduttore si è espresso fuori onda con lo stile di linguaggio che evidentemente è abituato a utilizzare nella vita ordinaria, lì dove le parolacce “fanno empatia”, accorciano – si presume – le distanze, rendono tutto “più familiare” e “meno ingessato”. Solo che nel momento in cui si tratta di dar parola alla tensione, come può accadere in qualunque contesto di lavoro, il lessico a disposizione rimane sempre quello, le parole “a portata di mano” sono le stesse. E allora, anche se quel che volevo dire è che “il tal concorrente non mi è parso all’altezza di sostenere il livello di ingaggio richiesto dallo spettacolo che è previsto vada in scena per sollecitare il pubblico secondo le aspettative dell’azienda”, finisce che dico che “il tale è una m…a”. E qui tutta l’illusione di empatia legata a un certo fraseggio si scioglie come neve al sole, mentre quel che si libera in chi ascolta è una percezione amplificata di violenza, di assenza di rispetto, di supponenza e – se uno esercita un controllo del proprio linguaggio solo in onda, solo in contesti diversi dal parlare ordinario – di doppiezza. Che è poi quel che la gogna mediatica sta addebitando a Insinna in questo frangente, suscitando i prevedibili commenti degli anti-bacchettoni.

Il Manifesto della comunicazione non ostile recita «Si è ciò che si comunica. Le parole che scelgo raccontano la persona che sono: mi rappresentano». Da sottolineare: le parole che scelgo, con cui mi abituo ad esprimermi. Cioè: il lessico che seleziono per la vita tranquilla di ogni giorno, nelle quattro chiacchiere in simpatia, diventa il set di strumenti espressivi a cui ricorrerò anche nei momenti di tensione, per manifestare la mia contrarietà, il mio dissenso, il mio malessere. Perché in quei momenti, in cui tutto si consuma in pochi istanti, non sceglierò proprio nulla, ma andranno in onda le mie abitudini, coltivate - più o meno consapevolmente - nella ripetitività del quotidiano dire e fare.

Scegliere ordinariamente di evitare le solite quattro parolacce è un esercizio che mostra la sua forza di contrasto della violenza (se è questo che ci interessa) esattamente quando occorre: non a bocce ferme, quando tutto va liscio e discutiamo astrattamente di comunicazione, ma quando tutto precipita e ciascuno lancia verso l’altro quel che ha lentamente accolto, coltivato e reso “disponibile a scaffale” dentro di sé.

È positivo desiderare di saper scegliere parole che feriscano il meno possibile quando le relazioni vanno in sofferenza. Ma l’unico modo per sostenere questo desiderio è scegliere di non impiegare parole di bassa lega nel discorrere ordinario.

 

PS. E se volete esplorare la questione dell’empatia c’è il classico di Edith Stein: Il problema dell'empatia . Vedrete che il turpiloquio non c’entra proprio nulla.