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Di quella volta che Tommaso d’Aquino finì su Vogue

No, non è una fake news. È una piccola storia vera, che merita un post da menestrello per essere raccontata (ché in quel mondo di austeri figuri medievali, che frequento quando ho bisogno di capirci qualcosa di più di come siamo fatti, quelli che fanno storytelling si chiamano così).

Tutto nasce in un antico borgo ai piedi di un castello arroccato su un’ansa del fiume Arno. E non è una ambientazione fantastica, anche se il luogo a suo modo lo è: oggi, all’epoca in cui si svolgono i fatti, il castello è un po’ malconcio ma speranzoso di nuovi fasti e il piccolo gruppo di case ai suoi piedi – che di nome fa Rondine – ospita la World House. È un’esperienza residenziale, che da ormai un paio di decenni invita a convivere per un biennio studenti provenienti da confini di guerra. Il tutto per far sperimentare che i vissuti spesso atavici di ostilità possono stemperarsi e generare insperate amicizie e collaborazioni. E questo già basterebbe per garantire alla storia di essere iscritta nel genere del “fantastico”.

I borgomastri che vivono all’ombra dell’antico maniero sono gente bizzarra, di quelli che prima ti vendono un sogno e poi, quando ormai lo hai comprato e ti svegli, scopri che ti hanno solo messo alla prova, perché il sogno è già cosa fatta (in realtà loro stanno già fantasticando oltre, ma poi ci si abitua).

Una delle loro strampalate visioni era dunque questa: «Qui si vuol vedere se la via della pace riesce a battere piste meno scontate. Perché va bene il peacebuilding, va bene la diplomazia dal basso, va bene il profilo da ambasciatori, ma la gente si dà appuntamento anche in contesti non ingaggiati. Come si fa a sensibilizzare chi magari vive un conflitto ma lo ha normalizzato e non se ne occupa, perché poi la diplomazia non è il suo ramo e fa tutt’altro di mestiere? Come si inoltra la via della pace nelle ordinarie professioni? Ad esempio: se ci fosse qualcuno che si occupa di alta moda, che cosa potrebbe generare per lei o per lui l’esperienza di Rondine?». Detto fatto – perché a Rondine le sfide piacciono – e tra le mura del borgo arriva anche Nadia Shaulova, con il suo sogno (e la sua arte) di stilista.

Un bel giorno – tutti i giorni delle storie fantastiche sono belli, comunque vadano le cose – capita che a cena si cominci a ragionare di progetti futuri e di intuizioni: occorre trovare le parole adeguate per esprimere il legame tra il lavoro di Nadia e quei cambiamenti che avvengono a Rondine, e che lei sente letteralmente intessuti negli abiti e negli accessori che disegna. Nasce così una conversazione che sulle prime aveva qualcosa di esilarante: una brillante stilista russa che discute disegni di pochette con uno stralunato professore di filosofia morale dell’università di Padova, che in fatto di accessori non va più in là di un robusto zaino di alpinismo.

Ci vuole poco però, e si finisce per esplorare insieme, per una lunga serata, qualcosa di comune: il concetto di «habitus», con tutti i corollari pensati niente meno che da Tommaso d’Aquino sulla scia di Aristotele. «Vedi te – se ne uscì messer Francesco Santioli, che assisteva divertito alla vicenda – come si fa a scovare il senso profondo di quel che un professionista creativo ha in mente, e a restituirglielo con i concetti che serviranno per esprimerne il cuore!». Il messere in questione è uno di quelli che vedono cose che altri neppure immaginano, ma verrà un giorno per raccontare anche la sua storia.

Nadia ha portato con sé quelle adeguate parole. Attorno a quel concept – ops, conceptus – ha saputo riallestire la sua visione di senso e tramare in modo originale le sue creazioni stilistiche, sull’ordito delle dinamiche di profondità dell’umano esplorate e rinominate a Rondine.

Nadia ne ha fatta di strada (e merita opportunità per farne ancora tanta) e a fine novembre 2017, con il suo progetto Social Fashion, ha ricevuto in Campidoglio il riconoscimento What’s up Giovani Talenti del Premio Minerva.

A Nicoletta Spolini, che l’ha intervistata per Vogue Italia, ha spiegato così l'essenza del suo lavoro e del suo messaggio: “Un abito è prima di tutto un habitus cioè un’abitudine, un comportamento: può cambiare il nostro mondo interiore, influenza il nostro pensiero e anche il movimento dell’anima”.

Ora completate il quadro fantastico e immaginatevi Bonaventura da Bagnoregio che dà di gomito a Tommaso d’Aquino:

«- Oh, mica mi avevi detto che ti occupavi di fashion!».

«- Parum…».

Tommaso è sempre stato di poche, adeguate parole.

Accanto a quella di Nadia potrei raccontarvi le ormai diverse decine di storie di studentesse e studenti del Corso di Laurea in Scienze del Servizio Sociale di Padova, che nelle loro tesi magistrali studiano la realtà del disagio, delle forme contemporanee del conflitto e dei modi per farsene carico ricorrendo alle risorse concettuali che affiorano da pagine del XIII Secolo. Ma come menestrello non sono un gran che, quindi non lo farò.

Mi limito a dirvi quel che grazie a tutte queste persone sto imparando, e cioè che scoprire di non essere i primi ad aver sognato, sperato, lottato, esultato, fallito o sofferto, scoprire che l’umanità ha riflettuto con profondità sul vivere già molto prima che noi nascessimo, prima che ci accorgessimo di aver bisogno di capirci qualcosa di più di quel che ci accade, scoprire che per tante esperienze ci sono già adeguate parole, ecco, tutto questo non significa rinunciare alla creatività e mortificare la percezione della propria originale irripetibilità. Significa, semplicemente, trovarsi in buona compagnia – come accade sempre a tavola a Rondine –, meno soli e più avvantaggiati nel vedere quei nessi che aiutano a trasformare in realtà concreta i sogni più audaci. Specialmente poi quelli di chi cerca nuove vie per la costruzione della pace.