DIALOGARE "DENTRO": dopo il YouTOPIC FEST

Quante volte ci lamentiamo del rumore, del caos e insieme di quel continuo correre che ci impediscono di sostare più umanamente davanti agli eventi che ci colpiscono, ci interpellano o chiedono di compiere delle scelte? Quante volte abbiamo l’impressione di essere a bordo di una macchina infernale, lanciata ad altissima velocità lungo un percorso che somiglia a tutto fuorché ad un’autostrada a tre corsie poco trafficata e di non avere il tempo per occuparci della rotta, perché la manutenzione del veicolo assorbe già tutte le energie? Nella frenesia della società contemporanea crescono le persone che confessano, con un misto di amarezza e rassegnazione, di essersi dovute occupare a lungo di “priorità meno importanti”, senza riuscire a trovare tempi e modi per rallentare e dedicare attenzione ad alcuni snodi decisivi nella vita. C’è, potremmo dire, un’attesa di raccoglimento e cambiamento che prima o poi si fa pressante in tutti, e il silenzio è quella dimensione di spazio-tempo che si candida ad ospitare il primo e favorire il secondo. Può accadere però che quando finalmente riusciamo ad aprire questa sorta di parentesi, l’esperienza che viviamo abbia ben poco a che fare con quella immagine di serenità, di rilassata e agevole concentrazione con cui spesso ci autorappresentiamo il silenzio. Cercavamo l’oasi pacifica del raccoglimento e abbiamo trovato il vociare caotico della dispersione. Siamo forse entrati nella dimensione sbagliata?

Se il tempo del raccoglimento – al #YouTopicFest o altrove – guidato dalla traccia che avevo proposto (vedi) è stato contrassegnato da diverse distrazioni, da un’attenzione che faticava a posarsi da qualche parte, dal vagare sconclusionato ragionando dei proverbiali “massimi sistemi”, dall’emergere di pensieri assillanti sulle cose da fare che attendono, dal riaffiorare di più antiche preoccupazioni o delusioni, allora tutto bene: significa essere entrati nella dimensione reale del silenzio. Sgombriamo almeno una prima illusione: quella che associa troppo frettolosamente il silenzio al relax. Ci vogliono entrambi nella vita, ma sono due cose diverse, due modi diversi di rallentare il ritmo di esistenze spesso troppo affollate di “vedo gente, faccio cose”. Il silenzio è primariamente zona di conflitto, in cui non sono esclusi momenti di tregua in cui tutto si placa, ma certamente non sono quel che contrassegna gli esordi del raccoglimento.

Ogni conflitto, come ben sanno a Rondine, è connotato anzitutto da molto caos: ci sono delle “parti” in causa, ciascuna chiede parola, rivendica le proprie pretese, prova a sovrastare le altre voci, a contestarne gli argomenti o semplicemente a sviare il discorso se vede che l’insistenza su un certo punto indebolisce la propria posizione. Basta osservare le dinamiche di un qualunque talk-show televisivo per evidenziare questi ingredienti primordiali, che in effetti si ritrovano anche nella dimensione interiore proprio quando ci si introduce nell’esperienza del silenzio. Come osservavo sopra, una gran varietà di pensieri inizia a farsi presente, spesso senza ordine ma sempre generando quell’impressione poco confortevole di essersi affacciati su qualcosa di troppo movimentato, di inafferrabile, di indiscernibile.

La prima esigenza diventa allora quella di porre un argine al caos.

Proprio come in un talk-show occorre fare in modo che tutte le voci – che inizialmente si accavallano – si raccolgano attorno ad un tema più preciso, perché questo è l’unico modo per far sì che i parlanti e le rispettive posizioni emergano più chiaramente, diventando così meglio distinguibili e riconoscibili. Si tratta cioè di passare dal caos al colloquio, ad un’interazione meno sconclusionata tra le diverse parti che prendono parola e che, interiormente, si esprimono appunto nei diversi pensieri che sviluppiamo.

Nel silenzio personale non abbiamo a disposizione un “conduttore”, ma possiamo affidare questo compito di primo riordino a qualche strumento essenziale, che ci offra spunti di riflessione e compiti piuttosto precisi. Nella scheda che avevo proposto, e che qualcuno potrebbe aver utilizzato, erano allora presenti un piccolo racconto e tre diversi interrogativi su cui soffermarsi in sequenza, provando a prendere qualche appunto sull’andamento dell’esercizio. Ecco alcuni spunti per valorizzare l’esperienza fatta (con i diversi passi proposti) e per rileggere eventuali annotazioni.

 

La prima difficoltà che si può incontrare riguarda la concentrazione. Alle volte il tempo di silenzio trascorre senza che neppure riusciamo ad entrare nell’esercizio che ci viene affidato. Già nel leggere il racconto potremmo aver constatato che l’attenzione veniva continuamente catturata da altre cose, da stimoli ambientali che provenivano dal luogo fisico in cui abbiamo scelto di sostare. Se per tutto il tempo dell’esercizio la nostra attenzione si è spostata dal racconto alle cose che vedevamo o ascoltavamo o percepivamo, possiamo quantomeno capire che il silenzio chiede anche una minima selezione di luogo. Non possiamo pensare di raccoglierci rimanendo accanto a persone che conversano tra loro o davanti a un paesaggio che cambia continuamente né a fianco della cucina da cui arrivano i profumi della cena… Una prima consapevolezza che l’esercizio può portarci riguarda allora l’importanza del luogo e della continua interazione tra ambiente esteriore e interiore.

 

Se siamo riusciti a entrare nell’esercizio, il secondo tipo di difficoltà che potremmo aver incontrato consiste nel rispettare il mandato e nel rimanere “in tema”. Quando finalmente riusciamo a “filtrare” gli stimoli ambientali è allora che entriamo nella dimensione vera e propria del silenzio, ovvero dell’ascolto di quel che si muove dentro di noi. L’esercizio, invitandoci a concentrare l’attenzione su un “tema”, mette alla prova la nostra capacità di filtrare i pensieri: c’è qualcosa che c’entra con l’esercizio e qualcosa che non c’entra. C’entra ogni pensiero che sviluppa l’eco del racconto, non c’entra ogni pensiero che ci disperde altrove, che ci manda “fuori tema”. È utile osservare quanto ci vuole perché ci accorgiamo di essere finiti lontano dal compito e se siamo in grado di distinguere i pensieri che dis-traggono da quelli che viceversa con-centrano.

 

Per inoltrarsi in profondità l’esercizio proponeva di passare dalla considerazione dei possibili significati astratti del brano a quella degli spunti interessanti per la propria vita. Cerchiamo il silenzio di raccoglimento non per studiare meglio un certo argomento, ma perché avvertiamo il bisogno di riordinare qualcosa in noi stessi, di cambiare in meglio qualcosa che ci riguarda. Se allora il racconto ci ha inizialmente aiutato a mettere a fuoco qualcosa di interessante, il passo successivo consiste sempre nel chiedersi in che modo la cosa ci riguardi e ci interpelli. Potremmo ora imbatterci in un nuovo tipo di distrazione, che consiste non più nell’indurci a vagare totalmente altrove, ma a rimanere a distanza di sicurezza dal chiederci come quel pensiero impatti sulla nostra vita, sulle nostre scelte. Si è fatta avanti una meditazione sull’importanza del raccoglimento? Ecco che ci troviamo a considerare quanto questa cosa farebbe bene a Tizio o a Caio. Il successo della distrazione consiste qui nel circoscrivere il frutto del nostro raccoglimento in dei bei pensieri, lontani dal nutrire realmente quel desiderio di revisione di vita che ci ha spinti a cercare il silenzio.

 

L’ultimo passaggio dell’esercizio – molto difficile arrivarci le prime volte o se il tempo è molto ridotto – invitava a vedere se nel colloquio interiore iniziasse ad emergere qualche proposito: un’idea anche semplice, ispirata dalla meditazione, che suggerisse qualcosa di concreto da poter fare proprio per sviluppare le esigenze di spiritualità e di revisione di sé della vita adulta. Può accadere cioè di essere finalmente sollecitati da pensieri che invitano a scelte piccole, compatibili con la vita ordinaria, non eroiche eppure allo stesso tempo impegnative, sfidanti, avvincenti, concretamente alternative rispetto a modi di fare abituali che avvertiamo essere di scarso valore o in qualche modo impastati di male. Può trattarsi del proposito di iniziare la lettura di un certo libro al posto della solita accoppiata divano-tv, dell’idea di dedicare qualche minuto alla sera per rivedere l’andamento della giornata, del pensiero quella di ridurre il consumo di qualcosa che sta diventando troppo centrale nelle nostre giornate o magari di quello di metterci a disposizione per quel tal servizio per cui non ci siamo mai decisi… Il silenzio è l’unico contesto in cui, ad una certa profondità, possono prendere parola in noi le voci che invitano a quei cambiamenti che qualificano in vario modo la nostra umanità. I pensieri concreti che spingono in questa direzione hanno a loro volta degli oppositori tipici. La distrazione qui ha poco potere, perché il raccoglimento ha dato ormai il suo frutto, conducendoci a considerare i modi pratici attraverso cui riformare qualche aspetto del nostro vivere. Possono invece sorgere invece voci di scoraggiamento, che iniziano a rappresentare il proposito messo a fuoco come irrealizzabile o come inutile. Ho provato già tante volte a cambiare, ma non ce l’ho mai fatta… In fondo le cose vanno bene così, perché complicarsi la vita? Comunque lo so che anche se inizio poi non dura…

Possiamo allora notare che le forme della distrazione, via via che scendiamo in profondità, si adattano alla “quota” a cui ci attestiamo: ad ogni livello di ingaggio – e le tre domande cercano di rappresentare almeno i passaggi più tipici – accade di misurarsi con stimoli o pensieri che tendono a sterilizzare il raccoglimento e a contrarre la mobilità interiore, cioè la disponibilità alla revisione di sé.

 

Imparare a riconoscere le forme della distrazione significa prendere confidenza con il conflitto interiore: affrontare il silenzio – breve o lungo che sia – e scoprirsi in qualche modo distratti, non vuol dire allora aver sprecato del tempo o fallito un compito. Al contrario significa aver iniziato ad ingaggiare la lotta interiore e aver preso – o ripreso – contatto con la possibilità concreta di cambiare qualcosa in se stessi, indirizzandosi verso il meglio.